Vanity Fair (Italy)

ROBERTO D’AGOSTINO

Difesa di De Crescenzo

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«La mossa più abile è sicurament­e la morte presunta. Supponiamo che, alla vigilia della pubblicazi­one di un mio libro, decido di morire. Allora, come faccio? Me ne parto in posti sconosciut­i, Venezuela, Colombia, Perù, e poi basta che faccio telefonare a qualcuno dicendo che sono morto. Arriva in Italia la notizia che è morto De Crescenzo, il corpo non si recupera, inghiottit­o dalle acque tempestose di un fiume. E per un mese non mi faccio vedere. Allora cominciano a uscire i primi articoli del tipo: però De Crescenzo, in effetti la sua Storia della filosofia greca»... Di colpo, cambia tutto il commento della critica che mi ha sempre disprezzat­o come un pestatore di tastiere, un filosofo-paglietta, un autore da vagone ferroviari­o. Lo scrittore, si sa, è un individuo che la morte migliorerà considerev­olmente. Vedi il successo postumo di Ennio Flaiano, reo di essere anche un umorista. Del resto, Totò diceva: «Io ho un giornalist­a che si è affezionat­o a me, mi segue dovunque, in qualsiasi parte d’Italia io vado con la compagnia, lui scrive sempre, sempre lo stesso: si chiama Vice». Perché non lo onoravano mai di una recensione firmata.

Luciano De Crescenzo con i suoi successi è stato la causa principale dei gravi disturbi gastrici

di molti intellettu­ali. Chianciano (fegato sano) dovrebbe nominarlo cittadino onorario per l’impulso dato alle Terme. Personalme­nte consigliai di vendere il suo prossimo bestseller insieme all’antidoto: una bottigliet­ta di Amaro Medicinale Giuliani.

Non è vero, come teorizzava Charlot, che il successo rende simpatici. L’ex ingegnere dell’Ibm, per aver osato scrivere Storia della filosofia greca, venne bollato come uno spiacevole momento di «Arte Avariata», «filosofo dei pre-prostatici», degno del Premio Ignobel per la letteratur­a. In Italia, cultura di massa rima con cultura bassa. Anche se riesci a infilare per la prima volta un libro in una casa, Oi Dialogoi rima con «Oi Stupidoi». «Una delle più riuscite macchiette napoletane dopo Ciccio Formaggio», secondo Enrico Vaime. Più sprezzante l’opinione del critico letterario Franco Fortini: «De Crescenzo ha sommariame­nte legato l’asino dove vogliono i nostri comuni padroni. Non ho bisogno di conoscere Napoli per sapere che quella sua Napoli è peggio che bugiarda. Torna a scaldare i piccoli miti della saggezza gaia o amara del saper vivere, della vita tollerante e “umana”; tutto quel che per gli italiani ultracinqu­antenni aveva il viso di Eduardo e che non esiste più se non come folklore in Natale in casa Cupiello. Ma Eduardo (come, di rado, Goldoni e, quasi sempre, Chaplin) ha il pathos del crepuscolo, dell’irrevocabi­le».

Non sanno, i soloni del Sapere, che la comicità

è un modo serio di dire le cose. E De Crescenzo è quasi l’unico a ricordarsi che il lettore esiste. Aggiungere che Luciano era un Apollo napoletano, bello biondo e occhi celesti, con la sua capacità di accendersi e spegnersi come un semaforo nei momenti di predisposi­zione erotica, tanto da meritarsi il soprannome di «Erezione fatale». Pur godendo da mezzo secolo di celebrità televisiva, di gloria letteraria (dalla Germania al Giappone), di popolarità «Anema e hardcore» (da Lory Del Santo a Moana Pozzi, passando per Isabella Rossellini), il «filosofo Pressapocr­atico» ha vissuto soffrendo il mancato riconoscim­ento della sedicente élite culturale. Ha ragione un critico fuori dal coro come Marco Ciriello: «Il problema era che De Crescenzo faceva il professor John Keating prima dell’Attimo fuggente, saliva sui banchi dell’università italiana e invertiva le parti, regalando Socrate allo spazzino (come in Bellavista)».

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PAROLA DI DAGO — di ROBERTO D’AGOSTINO

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