Vanity Fair (Italy)

DARIA BIGNARDI

Ricordo di Mattia Torre

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Mattia Torre l’ho incontrato poche volte ma sono bastate a volergli bene per sempre. Ci eravamo conosciuti tre anni fa a Roma a una colazione di lavoro col suo grandissim­o amico Valerio Mastandrea e il produttore Lorenzo Mieli, altro amico fraterno. Dovevamo parlare della Linea verticale, la serie che aveva scritto e sperava di girare per la Rai. La volevo per Raitre: Lorenzo Mieli me ne aveva parlato con passione e sembrava un progetto perfetto per la rete. La fama di Mattia Torre era luminosa: autore della serie di culto Boris e di bellissimi spettacoli teatrali, autore pieno di talento, divertente, sensibile, un mezzo genio. In più, La linea verticale era ispirata alla sua storia personale: Mattia aveva scoperto di avere un tumore mentre sua moglie era incinta del secondo figlio. Io vivevo a Roma quattro giorni la settimana e non avevo mai raccontato a nessuno il motivo dei miei strani capelli: avevo accettato la nomina di direttore poco dopo l’ultima chemiotera­pia. Quel giorno a colazione con Valerio, Lorenzo e Mattia che parlava ridendo dei suoi guai mi ero sentita un impostore, e per la prima volta avevo detto – en passant – a qualcuno che non fosse un parente o un amico stretto cosa mi era capitato. Mattia faceva quell’effetto: ti faceva sentire in famiglia.

Ci ho pensato: non era per l’intelligen­za o il senso dell’umorismo, tanti sono spiritosi e intelligen­ti: era per la bontà. Appena lo incontravi la sua bontà e la sua generosità ti accoglieva­no e facevano sentire capito e voluto bene: con lui ti sentivi a casa.

Dal giorno dopo quella stramba colazione sotto a un pergolato romano avevamo cominciato a scriverci messaggi. Io avevo interrotto un romanzo ispirato a quello che avevo vissuto: Storia della mia ansia. Ero combattuta perché sapevo che se l’avessi pubblicato non avrei potuto non parlare della mia malattia, cosa che non avevo nessuna voglia di fare. Quella del malato è una condizione personale: a qualcuno condivider­e serve o piace, a qualcuno no. Tutto quello che volevo dire sul tema l’avevo messo nel romanzo, e non ne volevo più parlare.

Ci siamo scritti per tre anni. Mattia mi aveva spronato a finire il libro dicendo che non potevamo sottrarci al nostro lavoro di autori. Ci raccontava­mo cose sulle cure e sullo scrivere che io non dicevo a nessun altro. Era come confidarsi a uno sconosciut­o in treno, ma anche a un fratello.

Un giorno eravamo andati a pranzo noi due soli, in un ristorante giapponese. Mi aveva raccontato del suo quadro clinico incasinato e mi ero sentita in colpa di essermela cavata meglio di lui. Ricordo che era molto interessat­o agli effetti di un farmaco che dovevo prendere perché gli avevo detto che mi faceva capire come ci si deve sentire a novant’anni, pieni di dolori alle giunture. Questa cosa gli interessav­a moltissimo, forse perché sapeva che lui a novant’anni non ci sarebbe mai arrivato.

L’ultimo messaggio è di alcuni mesi fa. Eravamo riusciti a produrre La linea verticale e a mandarla su Raitre. La prima puntata era andata benissimo, e non era scontato, visto il tema. Il giorno dopo i risultati Auditel gli avevo scritto: «Fantastico. Sei contento?». E lui: «Commosso. Sto sfasciando casa dalla gioia».

Gli avevo risposto: «Che bello. Te lo meriti». È il nostro ultimo messaggio.

Si meritava tanto altro. Aveva quarantase­tte anni. Era una persona molto bella, oltre che un grandissim­o autore.

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ORA DARIA — di DARIA BIGNARDI

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