Vanity Fair (Italy)

NON ENTRATE IN QUELLA FAMIGLIA

Dopo Hereditary, Ari Aster torna con Midsommar. Sarà l’horror del 2019?

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Neanche dodici mesi fa, Hereditary - Le radici del male veniva eletto da stampa e spettatori internazio­nali horror dell’anno. Era il primo film di Ari Aster, 33 anni, fino a quel momento un diploma in regia allA’ merican Film Institute, qualche cortometra­ggio, un romanzo. Passano dodici mesi ed eccoci a oggi: Midsommar - Il villaggio dei dannati

(nelle sale dal 25 luglio) rischia di essere nominato horror del 2019, superando, per molti critici, l’attuale detentore dello scettro, vale a dire

Noi di Jordan Peele. Due titoli in due anni, praticamen­te un record. L’accoglienz­a così calda non era scontata: l’opera seconda è sempre più difficile, dice la vulgata, ed è vero. Soprattutt­o se, come nel

caso di Aster, cresce con evidenza l’ambizione. In Hereditary il male stava tutto dentro una famiglia, e una casa assai sinistra. Anche qui c’è una famiglia, che però scompare subito: i genitori e la sorella di Dani (Florence Pugh, piccolo prodigio inglese, la rivedremo a Natale nell’atteso Piccole donne di Greta Gerwig) muoiono in circostanz­e tragicissi­me. La ragazza pensa bene di seguire il fidanzato (Jack Reynor), aspirante sociologo, in Svezia. L’idea è studiare i riti del Midsommar, festa d’estate che si ripete ogni novant’anni. Come insegnano gli horror, specie quando ci sono giovani studenti di mezzo, finirà malissimo: teste sfondate, peli pubici nella torta di mele, corpi aperti come polli. Il tutto su sfondo di décor scandinavo: vestiti candidi ricamati, coroncine di fiori, colazioni sull’erba. Più della trama, fin troppo scarna, conta la messinscen­a del regista, ormai un autore certificat­o: comincia con una compostezz­a formale che pare rubata al Nastro bianco di Haneke, poi fa dell’orrore un’installazi­one di visual art o quasi. La morale, se ne esiste una, è sempre la stessa: la famiglia, che sia quella che si lascia o quella che si trova, è sempre un brutto posto. m.car.

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