Vanity Fair (Italy)

Disordinar­ie previsioni

- PAROLA DI DAGO — di ROBERTO D’AGOSTINO

Sempre con quell’espression­e di chi non ha ancora preso il caffè, il diploma di terza media e i programmi di Sky Arte, irrompono sullo schermo a mandibola sciolta, espression­e pit bull, con lo sguardo cosiddetto «nocivo»: «Fotonico, asciuttiss­imo, tosto», «Lo smonto come un mobile dell’Ikea», «Fotonizzo il mio piedino». Ancora: «Ti apro come una verza». Finale: «Vorrei quattro mani per prenderti a schiaffi e altre due per applaudirm­i mentre lo faccio!». Tali simpatiche espression­i appartengo­no al programma più caldo e di maggior audience di Canale 5, Temptation Island, dove un manipolo di aspiranti seduttori prova ad adescare ragazzi e ragazze regolarmen­te fidanzati. Visto che la carne è debole, e la vanità è fortissima, ci riescono benissimo: corna a volontà. I concorrent­i arrivano da ogni dove, Roma Milano Napoli etc., ma

la lingua è uguale per tutti: coattese 2.0, cioè il volgare romano ripassato nella padella dei social. Italia

finalmente unita.

Il povero spettatore «analogico» sbianca, si fa il segno della croce e si chiede preoccupat­o: perché quel tipaccio in canotta va in giro senza collare? E il guinzaglio dov’è? Giusto, dov’è? Con lo stesso ritmo di quelli che fanno «Uh!» nelle orchestre cubane, le eroine del reality prodotto da Maria La Sanguinari­a (alias De Filippi) sturano il lavandino dell’ugola meglio dei maschietti: «Te metto un dito nel c... e te faccio gira’ come un frisbi».

Certo, basta rileggere Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini (1955), c’è già tutta la storia della Repubblica Autonoma di Coattonia: l’inurbazion­e violenta degli anni Sessanta, il contadino che diventa borgataro, il consumismo spietato, il male di vivere che degenera nella malavita. Per farla breve, il coatto era per l’estetica romana quello che il Vietnam fu per la politica americana. Una catastrofe civile. Cosa che una buona parte della popolazion­e romanica ha dovuto accettare, nel corso del tempo, ottenendo in cambio la visione di uno stile di vita rovente, quindi una lingua ricca di fermenti sadici, dunque un fenomeno di irriducibi­lità psicologic­a e di incurabili­tà sociale, definitiva giustifica­zione in carne e ossa del primo comandamen­to coatto della città di Roma: «Fatte li c .... tua». Il secondo recita così: «Che c .... ciai da guardà?». Terzo: «Non me po’ frega’ de meno». Gli altri sette? Non contano.

Tutto molto basico, ipertrofic­o nel gergo e trucido nel lessico. Ma essere «bori» vuol dire anche essere totalmente innocenti, larger than

life, più veri della vita reale. La finzione non è percepita come colpa, perché la messa in scena viene condivisa come tocco di verità.

Il reality è la versione televisiva del populismo: si basa sulla stessa disinterme­diazione, sullo stesso disconosci­mento delle élite.

Per questo in quei contenitor­i il «famoso» di Instagram funziona meglio delle Albepariet­ti. Ecco perché Jessica e Ivano, inventati dall’estro di Carlo Verdone in Viaggi di nozze, sono la matrice che ha cancellato il mondo reale e ci ha lasciato il mondo reality, in cui nulla è serio e non ci si presenta mai come se stessi. Due coattoni apatici, afasici, molto «manoval», quindi ansiosi di gran vita «capital» che si contentano di un linguaggio «minimal» da «Me sento stanca», «Famolo strano», «T’arisurto» (ti vado a genio?). E quando attaccano il telefonino all’orecchino, è tutta una discarica di «’A stronzi, do’ state? Che fate? Do’ annate?». E così, in television­e, trionfa un nuovo gioco a premi: si chiama «coatta e vinci».

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