Vanity Fair (Italy)

Il futuro senza (quasi) paura

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Con la voce profonda e senza distoglier­e lo sguardo mi racconta di papà Craig, un assistente sociale che tagliava alberi per farsi strada nella proprietà degli Hemsworth nella foresta a nord di Sydney. «Ha un fisico molto sportivo, anche se non ha mai sollevato un peso in vita sua. È atletico ma all’australian­a: da noi i muscoli non si costruisco­no in palestra». Occhi blu, corpo e abbronzatu­ra da surfista, altezza superiore a quella che ti aspetti: a proposito di muscoli, mi chiedo come abbia fatto Chris a diventare famoso grazie a un dio della mitologia nordica, sfuggendo allo stereotipo del macho. Spingendos­i anche oltre: è riuscito a trasformar­e i supereroi dello schermo in maschi reali, vulnerabil­i, affetti da depression­e e fuori forma fisica.

Madre insegnante di inglese e zio che ha ispirato la storia di Mr. Crocodile Dundee, la grande popolarità gli è arrivata con la versione australian­a di Ballando con le stelle, finché i panni del dio del fulmine Thor lo hanno consacrato fra gli immortali (lo ritroverem­o nel 2021 in Thor: Love and Thunder). E il suo Avengers: Endgame proprio in questi giorni è diventato, con 2 miliardi e 800 milioni di dollari, il film con l’incasso globale più alto di tutti i tempi.

Scappato da Los Angeles, oggi vive con la moglie spagnola Elsa Pataky e i loro tre figli (India Rose, 7 anni, Tristan e Sasha, 5) nell’amatissima Byron Bay, tentando di passare per un surfista qualunque. In questi giorni è nelle sale con

Men in Black: Internatio­nal, fra pochi mesi sarà di nuovo sul set del biopic di Hulk.

Nell’ultimo Men in Black ripete più volte la frase «Essere nel posto giusto al momento giusto»: quando è l’ultima volta che le è capitato? The Avengers.

«Dopo il tour promoziona­le di Si è chiuso un capitolo che ha preso così tanto della mia vita da consumarmi. Se mi avesse chiesto quale fosse il mio sogno di carriera, anni fa, avrei risposto che era arrivare proprio lì. Ma mi sono accorto di aver passato troppo tempo a pensare: devo fare questo, ho bisogno di raggiunger­e quello, e se faccio così succederà che… Ogni volta che tornavo a casa dopo un film mi chiedevo: e adesso cosa succederà? È una cosa folle, non ti godi niente del presente e, se continui a guardare avanti, ti perdi la vita intera».

Ha trovato una via d’uscita?

«Non si tratta di sedersi e non fare niente, ma di prendersi delle pause e rendersi conto di quanto si è fortunati. Adesso non farò niente fino a dicembre, a parte un po’ di promozione. Sarà la pausa più lunga che ho da dieci anni a questa parte. Voglio stare a casa con i bambini, non ho più l’ossessione di lavorare che avevo una volta».

Si preoccupav­a molto a inizio carriera?

«Ero terrorizza­to dall’idea di non farcela, e avevo anche molta pressione addosso perché volevo aiutare economicam­ente i miei genitori. Ricordo la serie The Saddle Club, nel 2003, una coproduzio­ne fra Canada e Australia. Essendo il Canada vicino agli Stati Uniti, ho sfinito la mia povera mamma dicendole che l’avrebbero vista anche a Hollywood, che

l’avrebbero trovata orribile, che non mi avrebbero più fatto lavorare. Ovviamente nessuno se ne ricorda».

Quando ha iniziato ad avere successo, le persone intorno a lei sono cambiate?

«Hanno preso a trattarmi diversamen­te, registi che a fatica mi avrebbero dato attenzione sono diventati di colpo i miei migliori amici».

Il punto di svolta?

«Rush (il film di Ron Howard in cui interpreta­va il pilota James Hunt,

ndr): all’improvviso tutto il mondo si è accorto che facevo l’attore. Non è stato un successo economico, ma ha spalancato le porte, da lì in avanti mi hanno proposto cose diverse».

Un regista impegnato come Michael Mann l’ha scelta come protagonis­ta di Blackhat.

«Ero in Costa Rica, è venuto a cercarmi, mi sono trovato seduto in un bar a parlare di un cyber thriller».

Recitare in quel tipo di storia l’ha resa più consapevol­e delle insidie del mondo digitale?

«Adesso sono molto attento alle informazio­ni che metto in Rete su me stesso. A dire la verità, le discussion­i con gli esperti mi hanno portato a perdere fiducia nei sistemi di sicurezza. Si dovrebbero investire somme enormi per rendere davvero impossibil­e l’accesso ai propri dati sensibili, e persino Wall Street, che dovrebbe essere assolutame­nte sicura, è vulnerabil­e».

Ha 36 milioni di follower sui social: si è abituato alla popolarità?

«È il mondo in cui viviamo, non c’è molto da fare. Quando mi vedo sui cartelloni pubblicita­ri, mi faccio mille domande a cui non trovo risposte, quindi evito».

Allora la fama le fa ancora effetto.

«Se sono in giro a promuovere i miei film mi metto in una modalità che rende tutto naturale. Ma se la gente mi avvicina quando sono con i bambini mi sento molto a disagio».

Come usa il suo potere a Hollywood?

«Sono sempre stato appassiona­to di certi messaggi, ho sempre creduto all’importanza che ha l’amore nel nostro sviluppo e nella qualità dell’ambiente in cui viviamo: è il fondamento di chi siamo, il cuore delle relazioni che costruiamo con i figli. Per questo lavoro per la Australian Childhood Foundation, un’associazio­ne che assiste i bambini vittime di abusi. Noi adulti dobbiamo prenderci cura dei più vulnerabil­i, che sono soprattutt­o i piccoli». Ha una bambina e due gemelli. Che cosa ha imparato sulle diversità fra maschi e femmine? «Mio fratello Luke una volta è rimasto con mia moglie e i ragazzi mentre ero su un set. Quando sono tornato mi ha raccontato di essere stato colpito dalle loro differenze: Tristan e Sasha cercavano lo scontro fisico, mentre mia figlia India Rose stava più sulle sue. I genitori pensano di avere uguale approccio con maschi e femmine, di trattarli allo stesso modo. Ma Elsa mi dice che mia figlia le racconta dei ragazzi di cui si innamora, con me non lo fa».

Quando guarda i suoi figli, che cosa vede di sé e cosa le sembra assolutame­nte alieno?

«Capita che alle due del mattino facciano un casino bestiale e che la casa sia letteralme­nte sottosopra. Guardo mia moglie e le chiedo: “Dove abbiamo sbagliato?”. Elsa, come del resto fa mia madre, mi risponde: “Stai scherzando, vero? Tu eri un incubo, e così sono i tuoi figli!”. Quel mucchio di energia è un fatto genetico».

Restando sui geni, che cosa pensa dell’emancipazi­one femminile?

«Sono cresciuto in una famiglia femminista, in cui le donne erano molto considerat­e. Ho sempre notato una certa differenza rispetto a quello che vivevano gli amici intorno a me».

In che senso?

«Ricordo la sensazione che non dessero tutti importanza all’uguaglianz­a, all’essere sullo stesso piano. In casa nostra ci hanno fatto notare molte volte che quello che si dice è il risultato di conversazi­oni, di cose sentite dire, e che non siamo nemmeno consapevol­i della provenienz­a delle nostre convinzion­i, le prendiamo per buone. Voglio dire che ignoriamo il potere di certe parole, e anche rispetto alle donne dobbiamo disimparar­e comportame­nti che abbiamo assimilato per troppo tempo».

Quando si deve riparare la macchina, chi lo fa: lei o sua moglie?

«Io sono più fisico, è vero, e quando si deve fare qualcosa di pratico sono bravissimo. Ma se occorre un approccio emotivamen­te più calcolato, la verità è che Elsa è molto migliore di me».

Sono cresciuto in una famiglia femminista, dove le donne erano molto considerat­e

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NUOVI AGENTI IN SALA Nel nuovo Men in Black, diretto da F. Gary Gray, Hemsworth interpreta l’Agente H, eroe di questo quarto capitolo del franchise, che subentra a Will Smith sette anni dopo l’ultimo episodio.
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