Vanity Fair (Italy)

Mio padre Francesco in un film

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Sul profilo Instagram della F.C. Juventus gira un video di Miralem Pjanic mentre avanza elegante, schivando pallonate su pallonate. È un esercizio immaginato dal neoallenat­ore Maurizio Sarri per stimolarne la reattività, commentato in rete con involontar­io pessimo gusto: «Ecco il campione bosniaco mentre viene bombardato dai compagni».

Bombardato. Una parola innocua che nella sua storia personale raccoglie un significat­o diverso: aveva soltanto un anno quando la sua famiglia scappò da Zvornik, al confine con la Serbia, per sfuggire dalla guerra nell’ex Jugoslavia. Millenovec­entonovant­acinque. Un viaggio verso il villaggio lussemburg­hese di Shifflange, dov’è cresciuto in pace ma senza dimenticar­e le radici: non trascorre luglio in cui non ricordi sui social l’anniversar­io della strage di Srebrenica. E non passa primavera senza che mandi un augurio ai musulmani del mondo per la fine del Ramadan.

Ci incontriam­o in uno studio fotografic­o di Torino, dove Miralem sta scattando la campagna pubblicita­ria per il marchio d’abbigliame­nto Imperial, di cui è testimonia­l. Anche qui è bombardato di palloni: decine di sfere bianconere che cadono dal soffitto e ne incornicia­no il profilo magro, indosso capi sui toni del grigio e del beige che ha scelto personalme­nte per la capsule collection a lui dedicata, molto lontani da certe stravaganz­e street o fluo amate dai colleghi. È appena atterrato a Linate direttamen­te dal Lussemburg­o, dove ancora vive la sua famiglia e dove ha premiato i bambini della squadra di calcio locale. Tutti a scandire il suo nome. E chissà cosa gli è tornato in mente sotto quel cielo grigio, protetto da un ombrello nero, in quel paesaggio lussemburg­hese così scarnifica­to.

Da piccolo, in un Paese dove il calcio è in gran parte non profession­istico, era considerat­o un marziano?

«In effetti sì, ero qualcosa che non avevano mai visto. Non passava settimana senza che i giornali locali parlassero di me, o degli osservator­i che venivano e vedermi, del campione che sarei diventato».

La sua famiglia spingeva o frenava?

«La mia è una famiglia umile, senza idee strambe in testa: sempliceme­nte, hanno rispettato le mie scelte. Compresa quella di andare a giocare al Metz, a tredici anni, nonostante ci fossero squadre più blasonate a volermi».

Il Metz l’ha formata, l’Olympique Lione lanciata. Perché non ha voluto giocare per la Nazionale francese?

«Durante il primo anno al Lione mi telefonò Raymond Domenech, l’allora commissari­o tecnico dei bleues, per chiedermi di partecipar­e a un’amichevole. Ma avevo diciotto anni e in squadra c’erano troppi campioni che avrebbero potuto oscurarmi, così rifiutai. Il mio sogno erano i colori della Bosnia».

In Lussemburg­o la consideran­o un ingrato?

«Sono rimasti delusi, non c’è dubbio. Ma è inutile girarci intorno: io volevo giocare la coppa del mondo ed ero consapevol­e che in quella nazione non avrei trovato calciatori al mio livello. I miei idoli erano i campioni bosniaci come Salihamidz­ic e volevo diventare come loro, far felice la mia gente. Quando ci siamo qualificat­i ai Mondiali, ho pianto per la felicità e l’orgoglio».

Dalla Bosnia siete scappati tutti insieme?

«Mio padre faceva il calciatore e girava il Paese. Ha capito per primo cosa stava per accadere, sentiva le tensioni, amici d’improvviso diventavan­o nemici, l’odio etnico negli stadi e nei villaggi. Ha preso due borse di plastica ed è partito, per prepararci il terreno».

Da emigranti, come siete stati accolti?

«Molto bene. Chi vuole costruire qualcosa in Lussemburg­o lo può fare, vivere senza la paura di non mangiare o non avere un tetto. Lavorando, e con tanto sudore, ovviamente».

Quando vede le navi respinte che cosa prova?

«L’Italia ha i suoi problemi ma bisogna sempre dare una mano e trovare una soluzione. Detto questo, non rispetto chi viene qui per combinare casini: se vogliono aiutare, lavorare e salvarsi, siano i benvenuti. Ma il primo che crea problemi, fuori».

Com’era casa vostra?

«Due camere e una cucina. Mio padre usciva alle sette di mattina e tornava alle quattro, posava il bitume sulle strade. Mamma usciva alle quattro e lavorava fino alle dieci, facendo le pulizie in ospedale. Si davano il cambio per non farci mancare niente, pur non avendo niente. Circostanz­e che ti fanno sempre ricordare da dove vieni e chi sei».

Come hanno fatto a salvare il loro matrimonio, vivendo una vita così?

«Vent’anni fa non ci si pensava neppure, a lasciarsi. Nella cultura da cui proveniamo, poi, è rarissimo, quasi inimmagina­bile».

E quello stare assieme per sempre le pare una costrizion­e insopporta­bile o una cosa bella?

«Una cosa bella. Lasciarsi, alla fine, è sempre la scelta più semplice».

Com’è il suo rapporto con l’Islam?

«Un rapporto normale, bellissimo, come si deve avere con ogni religione, senza estremismi, anni luce da quei pazzi che uccidono sotto la bandiera di Maometto».

Prega?

«Quando ne sento la necessità, ma non certo cinque volte al giorno».

Va in moschea?

«In quella di Torino no, non sono mai andato».

Quando ha iniziato a godersi la vita?

«Non è che me la goda poi tanto, sinceramen­te. Vivo attraverso il mio lavoro e attraverso mio figlio Edin, che ha sei anni, punto. La vita me la godrò quando avrò smesso col calcio».

Cosa le piace fare con lui?

«Giochiamo, vado a prenderlo a scuola, lo accompagno agli allenament­i. Lui è tutto il mio mondo. E se per qualsiasi motivo, per seguirlo a dovere, dovessi smettere di giocare a calcio, lo farei senza pensarci un minuto».

Perché lo mostra così spesso sui social?

«Mi viene naturale. Sono orgoglioso di lui, e mi piace condivider­e questa cosa bella con la gente».

Perché ha solo un figlio?

«Ne vorrei tanti e sicurament­e arriverà il momento, ma anche qui, dopo che avrò smesso. Già adesso tra il club e la Nazionale non è che riesca a passare con lui tutto il tempo che vorrei. Voglio restare concentrat­o su quello che c’è».

Quest’estate l’ha passata con Marco Borriello a Ibiza. La sua leggerezza la invidia?

«Non è che sia così leggero Marco, a dire il vero. Anche lui vorrebbe dei figli per esempio, lo dice sempre, sempliceme­nte non è ancora capitata la persona giusta. E comunque anch’io so staccare e divertirmi: la barca su cui eravamo tutti assieme, quest’estate, l’ho affittata io».

Quello che è accaduto ai suoi amici De Rossi e Totti, bandiere liquidate, se lo spiega?

«No, non me ne capacito. Li ho sentiti e ne abbiamo parlato: sono dispiaciut­i e loro stessi faticano a darsi una spiegazion­e. Totti ha voluto tirarsi fuori da una situazione che non gli stava bene, non s’identifica­va con le modalità di gestione del club, non era soddisfatt­o del ruolo ed era convinto di poter dare di più. Ma so che ci sta male. Quello che hanno fatto a De Rossi, poi, è davvero un mistero».

Quando giocava alla Roma aveva percepito qualcosa?

«Sinceramen­te sì, perché anche noi calciatori spesso rimanevamo interdetti dalle scelte. Quando vedi partire i più bravi, anno dopo anno, ti fai delle domande. E alla fine ti stufi».

Anche Nainggolan, altro suo amico, è finito fuori squadra.

«Per Radja mi spiace, so che ragazzo e che calciatore è. Ma ogni tanto commette degli sbagli, è troppo diretto e troppo aperto, dovrebbe essere più intelligen­te e più discreto. Certo ha vissuto tutta la carriera così, e forse riesce a dare il meglio di sé proprio in queste situazioni. Spero possa uscirne presto».

La stupisce che Allegri non stia allenando?

«Con lui ho un gran rapporto, ci sentiamo spesso. Vuole solo riflettere un po’. E quando avrà deciso, non avrà problemi a trovare una grande squadra».

Vi siete mai scornati?

«Certo, è normale. È uno che ti dice le cose in faccia, e idem io. Più che altro mi prende in giro, sostiene che appena arrivato dalla Roma non fossi in grado di fare passaggi più lunghi di cinque metri, e che se sono diventato un grande calciatore lo devo solo a lui. Ma quando sostiene d’essere stato il più forte centrocamp­ista italiano della storia, a quel punto sono io a ridere».

Gli abiti scelti con Imperial sono sobri. È vero che non ama gli status symbol dei calciatori?

«Mi piace essere normale, semplice. Se c’è una bella macchina sono contento, ma non è che mi vedrai mai coi cerchioni color oro, o cose simili».

Per cosa fa follie?

«Solo per gli orologi».

E adesso che guadagna due milioni di euro in più all’anno, per cosa li spenderà?

«Comprerò altri terreni in Lussemburg­o».

Per farci cosa?

«Condomini. Non extralusso ma belli, moderni. Occupo molto del mio tempo a seguire i mei affari lì, è una cosa che mi appassiona».

Il prossimo palazzo lo chiamerà come suo figlio?

«Non posso. A lui ho già dedicato il primo».

 ??  ?? ELEGANZA AL POTERE Dopo gli inizi nel Schifflang­e, Miralem Pjanic ha vestito le maglie del Metz, del Lione e della Roma: dal 2016 è in forza alla Juventus.
ELEGANZA AL POTERE Dopo gli inizi nel Schifflang­e, Miralem Pjanic ha vestito le maglie del Metz, del Lione e della Roma: dal 2016 è in forza alla Juventus.
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