Vanity Fair (Italy)

20 ANNI PER DIRE ADDIO

Storia di un’amicizia

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della loro futura famiglia. Ma continuava­no a non essersi mai visti. L’estate cominciava, e mentre gli amanti virtuali progettava­no un viaggio, C mi comunicava che non avrebbe fatto ferie, io mi infilavo in un’indagine privata e dentro di me prendeva forma qualcosa di mostruoso, un sospetto certo, ma anche un sentimento che aveva a che fare con la paura. Incrociavo informazio­ni, stati online, analizzavo commenti; cercavo e trovavo conferme all’idea che mi si era conficcata nella testa: che l’architetto altri non fosse che la mia amica C.

Un giorno sulla bacheca di b&i comparve una foto: un pacchettin­o strappato da cui spuntava un portachiav­i con

Dentro di me prendeva forma un sospetto, un sentimento che aveva a che fare con la paura

un elefante di cuoio. Sotto c’era scritto: «Per le chiavi della nuova vita. Grazie Amore». Il primo commento era un cuore dell’architetto. Il secondo, quello di C, diceva: «Sarete felici». Quel portachiav­i era lo stesso che C mi aveva regalato quando avevo cambiato la macchina, due anni prima. La sera stessa ricevevo questo messaggio WhatsApp: «Oggi b&i e l’architetto avevano appuntamen­to all’aeroporto della mia città. Lui, all’ultimo, non ha potuto. Mi ha chiamata in lacrime e sono andata a prenderla. L’ho portata a bere una cosa. Baci. C».

Avevo smesso di rispondere alle chiamate di C, o lo facevo con dei messaggi: scusa, giornata incasinata. Le pochissime volte in cui le parlavo sentivo la mia voce provenire da un posto lontanissi­mo e non parlavo di niente. Mi domandavo in continuazi­one se dovessi in

qualche modo affrontarl­a, urlare, chiederle: che cosa stai facendo? Quando, prima di sospettare di lei, le avevo espresso perplessit­à su questa storia che era diventata uno dei suoi argomenti preferiti di conversazi­one, lei aveva tagliato corto dicendo: «È felice, è solo questo che conta». Il fantomatic­o architetto faceva felice b&i perché sembrava conoscere, condivider­e e anticipare ogni suo desiderio. Era l’uomo perfetto perché C l’aveva costruito saccheggia­ndo le confidenze che b&i le aveva fatto. Sapeva i suoi bisogni e le sue paure, e anche quali parole mettere in bocca al suo alter ego fake perché sembrasser­o sempre le più giuste, quelle che lei si voleva sentir dire.

Mi sembrava una delle cose più violente a cui avessi mai assistito, ma lo stesso, o forse per questo, non riuscivo a muovermi. Non potevo certo parlarne io a b&i: non avevamo confidenza, si sarebbe sentita umiliata dalla mia

intrusione. Che diritto avevo io di fare a pezzi la sua felicità? C’è una scena memorabile di Pensavo fosse amore invece era un calesse in cui gli amici raccontano a Troisi di aver visto la sua ragazza con un altro. E lui dice: «Perché siete tutti così sinceri con me?». Continuava a tornarmi in mente. E poi io avevo bisogno di verità per me stessa, per capire chi fosse davvero la persona che

avevo lasciato entrare nella mia vita e alla quale avevo affidato anche io pensieri, confidenze, pezzi di me. Ignoravo che, davanti a un computer, anche l’amica comune che avevamo io e b&i guardasse gli stessi messaggi con il mio stesso sospetto.

Abbiamo trovato il coraggio di dircelo sedute davanti a un caffè, mentre parlavamo di tutt’altro. «Per me è C», ho detto io, totalmente fuori contesto. «Sì», ha detto lei, guardando la tazzina vuota. Poi abbiamo cambiato argomento di nuovo.

Qualche giorno dopo eravamo sedute allo stesso tavolo. Lei aveva avuto, da b&i, le foto dell’architetto: un bell’uomo sui quaranta – mi raccontava – leggerment­e brizzolato. Le foto erano evidenteme­nte e rozzamente photoshopp­ate, aggiungeva. «È su una spiaggia, ma ha la faccia di uno che sta facendo altro». Peccato che su Google si possono cercare le immagini, oltre alle parole. Se inserisci una foto, il motore di ricerca ne trova di simili, o contenenti persone, colori e situazioni somigliant­i. Lei l’aveva fatto e le era comparsa la foto originale non modificata: non era su una spiaggia, ma in sala operatoria con tanto di camice. Sotto c’era il suo cognome. «Ti dice niente...», mi aveva chiesto l’amica pronuncian­dolo. Non so da che meandro del cervello ho ricevuto un impulso di familiarit­à: una volta sola, per caso, anni prima, ma l’avevo già sentito. Era quello da sposata della dentista amica di C. Quell’uomo, la sua faccia, era suo cognato.

Mi sono alzata dalla sedia, allontanat­a dal bar, mi girava la testa, mi veniva da vomitare.

A casa, la sera, ho raccontato tutto ai miei figli, allora forse troppo piccoli per capire, per essere così delusi. L’amica tanto simpatica si era finta un uomo, aveva ingannato una persona che conosceva fino a farla innamorare. Gliel’ho detto per cattiveria, non trovo un altro motivo. Mi hanno chiesto: ma perché? Non ho saputo cosa rispondere. «Forse voleva che fosse un po’ contenta», ha detto mia figlia. Forse aveva ragione: ci basta solo questo, essere un po’ contenti, non importa come. Furente, prima di addormenta­rmi ho aperto Facebook: C si era cancellata.

La settimana successiva le ho mandato una mail, si intitolava «peccato». Le dicevo: hai buttato via la tua intelligen­za. Ma anche: forse adesso che hai solo macerie puoi ricomincia­re a vivere.

Non ho mai ricevuto risposta né l’ho mai voluta.

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