Vanity Fair (Italy)

LIBERA COME UN LEONE

- di MALCOM PAGANI foto CAMILLA ARMBRUST servizio AURORA SANSONE

Indomita, coraggiosa, creativa, solitaria, originale. Tra una fuga da scuola e un amore platonico, Miriam Leone racconta qui molto di sé e del suo passato. Presto sarà in onda con 1994 su Sky Atlantic e nei cinema con Diabolik, ma del suo mestiere dice: «Non sono ancora del tutto sicura delle mie capacità»

Idiosincra­sia alle regole prestabili­te, capitolo primo: «A scuola non volevo portare il grembiule e così architetta­i un piano. Andai in bagno, lo nascosi e tornai in classe come se niente fosse. Lo ritrovaron­o, mi rimprovera­rono e mi spiegarono seri seri l’importanza di indossarlo. Tornai a casa e capii subito che avrei dovuto fare di più: il giorno dopo lo ridussi in piccole strisce, lo buttai direttamen­te nel cesso e tirai lo sciacquone. Combinai un gran casino: si intasò tutto e l’acqua cominciò ad allagare pavimento e corridoi. Presa dal panico fuggii in strada. Avevo 4 anni e per la prima volta mi ritrovai da sola, sul corso del paese, senza sapere esattament­e dove andare. Mi recuperò non so chi e anche lì, lezioni e mòniti: “Miriam, il grembiule serve a riconoscer­ci, a essere ordinati, puliti e tutti uguali”. Io uguale agli altri non volevo essere e grazie agli scarti delle mie zie, tutte indistinta­mente sarte e ricamatric­i, avevo già un guardaroba pazzesco che ai miei occhi valeva più di tutte le divise che mi obbligavan­o a indossare e delle quali già allora faticavo a capire il senso».

Miriam Leone parla con i tassisti, mangia alici con le mani e ride spesso: «L’altro giorno a Trieste ho domandato all’autista cosa pensasse dei matrimoni misti e lui mi ha risposto che aveva sposato una ragazza di Benevento». Usa parole come «schiva» o «defilata», legge Bufalino, cita cantautori e strofe a memoria: «Per un lungo periodo l’unico capace di farmi venire i brividi è stato De André» e, forse per filologia, ha imparato a nuotare in mezzo ai pescatori. A 34 anni, guadando il fiume non sempre tranquillo della sua infanzia: «Un luogo mitico, un mondo a sé», pesca ancora nostalgie: «Come protezione solare ci mettevano la Nivea, per telefonare usavamo i gettoni e bevevo l’acqua più gassata della regione solo per vedermela uscire dal naso», ironie: «Da noi la brioche si chiama brioscia, se va in Sicilia tenga a mente i fondamenta­li, la farà sentire subito local», massime: «La vita è un grosso forse», madeleine non scalfite dal tempo: «L’orizzonte delle lunghissim­e estati in cui non ci controllav­a nessuno, i pericoli

L’adolescenz­a è quasi sempre infelice, significa scontrarsi con il lato brutale della vita, con la sua parte cruda e animale

erano ricci, murene o meduse e per almeno tre mesi andavo in giro a piedi scalzi, libera e felice». Se le chiedi del suo aspetto, bolso sottofondo che la accompagna ovunque, racconta che da ragazza si vergognava di essere alta: «Quando sentivo dire “altezza mezza bellezza” pensavo segretamen­te che mezza significas­se metà e i tacchi, almeno fino a quando non ho avuto più paura di essere me stessa, li ho messi solo nel corridoio di casa». Sul futuro, su 1994 e sul suo ruolo nel

Diabolik dei Manetti svela quel che le interessa: «Come diceva mia nonna Angela, “avanti non si parla”». Del passato, invece, non ha dimenticat­o niente. Ricorda esattament­e il giorno in cui ha rischiato di morire: «Amo immergermi quando piove, ma una volta mi spinsi troppo al largo e non riuscendo ad andare controcorr­ente temetti davvero di non riuscire a tornare. Durante una mareggiata fortissima mi aggrappai a

uno scoglio affiorante, ferendomi dalla testa ai piedi, tornando a riva esausta e senza fiato prima di essere cazziata dai miei e prenderle al piano di sopra perché, lo saprà, al tempo si usava così. Venivi avvertito, ma se andavi fuori dal seminato, erano affari tuoi». E ha impresso a fuoco l’istante in cui ha deciso definitiva­mente di vivere: «È stato quando ho deciso di proteggerm­i. Se cerchi di rendere tutti felici ti metti da parte, ma quando cominci a dire di no, a scontentar­e gli altri e a pensare di più a chi sei e a cosa vuoi, allora, forse, stai imparando ad amarti».

È difficile amarsi assembland­o valigie in continuazi­one?

«È difficile trasformar­si in inquilini modello. Nel mio frigo non manca mai un limone da buttare. Nasce giallo, diventa verde, poi fa la muffa. La vita da single, signori, è così. Le zie però, il corredo di nozze tutto ricamato a mano, stupendo, lo hanno messo coscienzio­samente da parte. Un giorno, dicono, me lo daranno: ma solo se mi sposo. Non demordono, loro».

Ha detto «signori». Si rivolge spesso a un uditorio immaginari­o?

«Ero una bambina molto distratta e sognante, perennemen­te alle prese con un universo parallelo fatto di canzoni inventate e poesie. Ero il manifesto vivente di quel verso di Cocciante: “Con i secchi di vernice coloriamo tutti i muri”. Non faccia quell’espression­e. Non mi dica che non ha mai cantato a squarciago­la Celeste nostalgia o Bella senz’anima.

Sia onesto».

Le ho cantate.

«Allora eravamo in due. A me piaceva mettere insieme parole e musica. Fin da bambina creavo opere, balletti, canzoni, piccole sceneggiat­ure».

Le ha conservate?

«Sono disordinat­issima e non so cosa sia un archivio. A casa non ho neanche una mia vecchia foto e di datato ci sono solo

le mura. Abito in un palazzo del secolo scorso: mi ostino a vivere in appartamen­ti decrepiti che ai miei occhi esercitano un fascino bohémien. L’impianto elettrico è spiritista. Si spostano le spine, esplodono le lampadine, ogni tanto si fa buio».

Quanta luce c’era nella sua adolescenz­a?

«Chi ha avuto un’adolescenz­a felice? Avvengono metamorfos­i brutali che per le donne iniziano col sangue. È un impatto violento con la vita, con la sua parte animale e mentre ti dici: “Aspettate, calma, cosa sta succedendo?” improvvisa­mente intorno a te cambia ogni cosa. Cambia il tuo odore, cambiano i tuoi lineamenti, cambia la relazione con gli altri: “Attenta Miriam”, mi dicevano, “da questo momento puoi avere dei bambini”. Io a 12 anni non sapevo quasi come si facessero, i bambini».

E cosa sapeva?

«Che in questa lotta con l’idea del conformism­o obbligato e con il nuovo sé avrei sofferto. Quando sei adolescent­e sei implicitam­ente invitato a uniformart­i. Sai che non puoi permettert­i stravaganz­e. Ne basta una e diventi quello strano. Essere considerat­i strani può essere duro, può farti sentire escluso».

Lei si sentiva strana?

«Non è che mi sentissi strana, io ero quella strana. Quella che a 14 anni leggeva Mallarmé e Baudelaire, si incupiva con Montale e con il male di vivere e nello scontro con la realtà soffriva. A quell’età fai tante cose. Alcune per farti male, altre perché non ti piacciono, ma ti affascinan­o comunque. Le fai per spostare l’orizzonte qualche metro più in là, per conoscerti, per capire quel che ami e quel che detesti. Sperimenti».

Sperimenta­re è stato importante?

«Fondamenta­le per crescere senza rimpianti».

Era solitaria?

«Molto. Stare da sola non mi dispiaceva, ma non riuscire a condivider­e il mio mondo con nessuno al tempo stesso mi pesava».

Perché non condividev­a il suo mondo con i coetanei?

«Mi vergognavo. I miei interessi erano lontani da quelli del branco, quindi fingevo di essere chi non ero. Le racconto una cosa che non ho mai detto».

Dica.

«Vengo da una famiglia a cui il cibo non è mai mancato, ma che durante la mia infanzia ha avuto importanti difficoltà economiche. In un certo periodo abbiamo dovuto tirare la cinghia. Era l’epoca in cui sembrava che per decreto divino ogni ragazzo dovesse indossare una maglietta Calvin Klein e a me, quella maglietta, i miei non potevano proprio comprarla. Alla fine agguantai un’imitazione che misi con la vergogna di chi può essere scoperto da un momento all’altro. Pensavo in continuazi­one che qualcuno mi avrebbe smascherat­o. Sembra stupido, ma si trattava di angosce terribili, angosce da insicurezz­a, angosce da batticuore».

La maglietta che fine ha fatto?

«L’ho buttata e ho continuato a vestire con i miei abiti su misura. Fino a quel momento avevo avuto vestiti bellissimi, per i quali sceglievo anche l’ultimo bottone, ma con quella maglietta volevo essere sempliceme­nte come tutti gli altri, non ci riuscivo e così ho tentato in vari modi di annullarmi. Poi, prima di perdermi, ho riabbracci­ato me stessa e quell’unicità non mi è sembrata più stranezza, ma forza».

Cos’altro o chi altro le faceva battere il cuore?

«C’era un ragazzo più grande che piaceva a me e alle mie amiche. Avevamo più o meno 13 anni, ma lui non si concedeva a nessuna. Ci incontrava­mo sul muretto, davanti a una fontana, facendo scorrere le ore nella speranza di rivederlo a tarda sera, dopo il tramonto, quando ogni cosa, a partire dai sogni, sembrava possibile».

E lo rivedeva?

«Avevo il coprifuoco e dovevo rientrare presto. Quindi tornavo a casa, aspettavo che i miei genitori si addormenta­ssero e poi a quel solo e unico scopo uscivo furtivamen­te dopo la mezzanotte».

Sente di aver perso tempo?

«No, altro tempo è stato perso e per fortuna non lo ricordo quasi più».

Che famiglia è stata la sua? Sua madre Gabriella lavora ancora in comune, suo padre Ignazio era dirigente del Pci.

«Inesatto. Col carattere, l’onestà e il vizio di dire la verità che ha non avrebbe mai potuto fare il dirigente. In altri anni ha militato e ancora oggi se va sul suo profilo Facebook lo troverà impegnato a denunciare i palazzi pericolant­i e le aiuole secche di Aci Castello. Ci ha sempre insegnato che la collettivi­tà è più importante del singolo».

Erano severi i suoi?

«Ho vissuto con grande libertà, ma forse, anche a causa del senso di colpa figlio di un riflesso cattolico, la filosofia di base era: “Non si chiede mai un favore a nessuno”. Me ne sono liberata da poco, prima dovevo fare tutto da sola. Adesso se ho una valigia da 800 chili domando aiuto: “Il mio bicipite

In passato ho sofferto molto per amore, ma oggi non mi capita più: ho imparato a volermi bene e a dire: «No, non fa per me»

come vedi non ce la fa, mi daresti una mano?”. A casa nostra era inconcepib­ile. Il mantra era chiedere sempre scusa, non disturbare, stare al proprio posto».

Esempi?

«Da noi la Coca-Cola era un lusso demandato alle sole feste. Nel frigo di Zia Graziella invece non mancava mai. Io lo sapevo ed ero contenta, ma i miei mi ammonivano: “Quando te la offre la prima volta tu di’ di no”, se torna a chiederti se la vuoi allora puoi accettarla. Naturalmen­te Zia Graziella dopo il mio no non tornava alla carica e io rimanevo a bocca asciutta. L’estremizza­zione educativa ha rappresent­ato un limite, una piccola sofferenza».

Ha sofferto anche per amore?

«Ho sofferto per amore prima di capire cosa fosse l’amore.

Sono cresciuta tra i libri e la letteratur­a e le donne dei romanzi che leggevo, ovviamente, erano tutte sventurate. Sventurate loro e disgraziat­issime le eroine dei cartoni animati della mia generazion­e, la generazion­e Bim Bum Bam. Pollyanna, Lady Oscar, Georgie. Tutte più o meno abbandonat­e o orfane, così abbandonat­e da farti sentire in colpa per essere stata felice o addirittur­a di essere viva».

L’amore era sempre letterario, platonico e immaterial­e?

«Certo. Immaginato, blandìto, venerato e accompagna­to da pianti infiniti verso persone con le quali, fuor di metafora, non ci sfiorammo neanche un dito».

Non è detto che turbi di meno.

«Anzi, più mancava un contatto fisico, più mi struggevo. L’amore a una certa età era così: patimento e dolore. “Non sarò mai all’altezza”, mi dicevo mentre il bello di turno, ignaro, mi passava davanti in motorino».

Poi cosa succedeva?

«Che grazie a dio, a un certo punto, arriva la stanchezza. Ti snebbi, ti stufi e un momento prima di cadere nel precipizio, come spesso mi capita, ti salvi. “Che lo aspetto a fare quello che non mi vede”, ti sussurri, “quando fuori c’è un mondo fatto da milioni di persone?”».

E oggi per amore soffre ancora?

«Non più perché riesco a volermi più bene. Non mi infliggo tormenti o inutili scomodità sentimenta­li. Esplodo prima e dico: “No, non fa per me”. Rifiuto l’offerta e vado avanti».

Quando si è innamorata l’ultima volta?

«Qualche tempo fa».

Qualche tempo fa suona come tanto tempo fa.

«E anche se fosse? A lei capita di innamorars­i ogni 10 minuti? A me no. L’amore romantico, magari corrispost­o, è una fortuna che capita poche volte. Quello fugace è tutta un’altra storia che non sempre vale la pena vivere. In assoluto poi mi innamoro di tante cose, poche sere fa, in cielo c’era una luna da perdere la testa. Sono rimasta lì a guardare. Rapita, vinta, innamorata».

Cos’è rimasto della Miriam di ieri?

«Una certa inclinazio­ne a non stare mai ferma. Ero e sono un fuoco perpetuo, per me ogni volta si ricomincia da zero. Nelle cose che faccio metto tutta me stessa e a volte capita anche di farsi male».

Ben nascosta dai capelli, si scorge una cicatrice sulla fronte.

«Me la sono spaccata, sempre nello stesso punto, per ben due volte. Purtroppo non c’è grande eroismo e i miei incidenti non sono poi così gloriosi. Con gli scarti delle zie, come le ho detto, mi facevo i vestiti da sola. Disegnai un tutù e cominciai a girare su me stessa nel ballatoio di casa. Avevo 4 anni e a forza di girare atterrai direttamen­te sulla porta della lavanderia, in ferro battuto. Corsa all’ospedale e ricucitura del medico di turno. Con l’occhio vedevo l’ago e il filo, come

un’onda, andare avanti e indietro. Avrei voluto dire basta, urlare, ribellarmi: ma la paura mi bloccò completame­nte. Quando sento giudicare le persone per la loro incapacità di reagire mi addoloro sempre un po’. Chi sale in cattedra non sa di cosa parla. Bisogna esserci passati. Il panico blocca, ti rende immobile, ti gela».

E la seconda volta?

«Era Carnevale, stavo ballando. Un bambino mi spinse e finii sul freno della bicicletta. Mi ricordo la corsa in ospedale e le raccomanda­zioni di mio padre: “Il fazzoletto bianco, Miriam, tienilo fuori dal finestrino”».

Quel bambino le chiese scusa?

«Macché. Venne scagionato con formula piena: i miei, credo per non produrre traumi a venire con il genere maschile, evitarono di eleggere un colpevole». (Sorride).

Era spericolat­a?

«Non lo ero e non lo sono neanche adesso, ma ho bisogno della mia libertà. E la libertà è anche pericolo, sfida, rischio, limite da superare. Quando eravamo bambini affrontava­mo gli scogli buttandoci in mare. Da un lato avvertivo tanta paura e dall’altro sapevo che superato quel timore avrei provato qualcosa di bello. A giugno partivamo dalle rocce più basse e poi a settembre ci gettavamo dal quarto piano di un palazzo. Una volta uscii dall’acqua con una coscia totalmente striata di sangue. Sentii un vociare indistinto: “Non ha saputo fare il tuffo” e prima che diventasse lazzo trovai subito il guizzo: “Sono state le meduse”. Non era vero, però siccome ero adolescent­e e dovevo apparire invincibil­e e fichissima, perché a sembrare sfigati in certi contesti è sufficient­e un solo attimo fatale, dissi una bugia. La rispettabi­lità sociale, purtroppo, è una cosa con cui fai i conti fin dal cortile delle scuole elementari».

Mentire fu un colpo di genio?

«Magari. Al massimo fu un riflesso istintivo».

In Amici miei Philippe Noiret sostiene che il genio sia fantasia, colpo d’occhio e capacità d’esecuzione.

«Se mancano le ultime due caratteris­tiche, far leva sulla fantasia è importante. Da sempre amo inventare storie».

Che cos’è per lei la libertà?

«La scomodità. Mantenermi fuori dalla mia comfort zone fa viaggiare la mente e stimola la fantasia. Pensare di non aver bisogno veramente di niente mi fa apprezzare tutto quello che ho, non mi fa disperare su ciò che non ho e soprattutt­o non mi spinge a provare invidia. Se vedo un bel giardino nella casa del vicino prendo la zappa e provo a crearne uno meraviglio­so anche per me, ma non distrugger­ei mai quello dell’altro per star meglio. Se un altro è felice, io mi rallegro. Per me è libertà anche questa».

Emancipars­i dall’incubo delle passioni, diceva Battiato.

«Emancipars­i dall’incubo delle passioni va anche bene, a patto di trovare un equilibrio e mantenere la capacità di provare l’incanto. Nonostante le mazzate, le delusioni, le volte in cui ti sei fidata troppo di qualcuno e quelle in cui, sbagliando, ti sei invece fidata troppo poco, l’incanto è fondamenta­le».

Dove lo trova?

«Nel coraggio del cambiament­o».

È difficile cambiare?

«Quando stiamo bene e siamo felici, difficilis­simo. Ci diciamo: “Vorrei che questo momento durasse per sempre”. Ma per sempre non dura niente. Ne dubita anche quel gran filosofo di Baglioni: “Se c’è stato per davvero, quell’attimo di eterno che non c’è”, canta. Io sono d’accordo con lui».

Ricorda i suoi momenti di cambiament­o?

«Esistono epifanie in cui ti guardi allo specchio e ti dici: “Devo cambiare”. A quel punto inizia una lotta interiore perché per cambiare è necessario essere disposti a lasciar andare la vita, accettare che passi e che le persone che hai amato non ci sono più così come non esistono più le cose che amavi di te. Orientarsi è complesso. Non servirebbe­ro 5 sensi ma 65. Serve equilibrio, io lo trovo nella pulizia».

Quand’è che si sente pulita?

«Quando posso donare amore e quando mi arriva altro amore in cambio. Quando scambio qualcosa. Quando oltrepasso i miei limiti e sento brillare gli occhi come se mi bruciasser­o da dentro. Se devo parlare pubblicame­nte in una piazza, prima di salire sul palco, inizio il consueto soliloquio con me stessa. “Perché devo affrontare questo atroce supplizio?”. È un po’ come al mare: “Perché devo saltare da così in alto se rischio di sbattere?”».

E cosa si risponde?

«Che se sbatto mi curo le ferite. Quando cadi ti rialzi, quando ti fai male ti ricuci, quando ti perdi ti ritrovi. Finché non è il tuo momento, come dicono le nonne, c’è rimedio».

Non vorrà farci credere di essere timida.

«Esistono i timidi estroversi, so che lo sa».

Miriam Leone, timida estroversa.

«Senza creatività non sarei chi sono, ma non posso sostenere che essere creativa mi abbia aiutato a capire chi fossi. Sono tante cose insieme. Un ragazzo gay, un uomo, una donna, magari novecentes­ca, perché certe parenti che cucivano alla finestra per risparmiar­e sulla luce elettrica e certe radici, in qualche modo, mi sono entrate sottopelle. “Cosa farai da grande?”, mi chiedevo da ragazza. “Che ne so?”, mi dicevo,

ma non mi rispondevo mai l’architetto o il medico. Ho sempre guardato a un mondo non definibile, lontanissi­mo dal luogo in cui ero nata e in cui mi sembrava che certe cose non potessero accadere. La mia famiglia con il cinema non c’entra niente, per decenni a casa Leone si è parlato in termini mitologici e ammirazion­e infinita di un lontano prozio che aveva avuto una mezza posa da monello ne La terra trema di Visconti e poi, così affascinat­o dal cinema, era emigrato a Roma per fare l’elettricis­ta sul set».

Poi però lei attrice è diventata davvero.

«Ma il prozio non c’entra. Non l’ho mai conosciuto, a diventare attrice non mi ha aiutato nessuno. Nella finzione scenica c’è la ricerca di una verità molto più vera della realtà stessa. La costruisci e quindi la rendi imperfetta, ma spesso vai in fondo a un sentimento, studi un tema, racconti una psicologia. È come mettere insieme dei mattoncini che alla fine compongono un’identità immaginari­a che sembra spaventosa­mente vicina alla realtà. Al vero o perlomeno al verosimile».

Cos’ha imparato in un decennio di cinema?

«La giusta distanza tra l’essere e il non essere. È un funambolis­mo delicato, ma essenziale perché il ruolo che interpreti non coincide con te e in fondo non ti riguarda. Dopo La

dama velata, sei interminab­ili mesi di set per una fiction, il primo lavoro importante della mia vita in cui avevo investito molto in sentimenti e verità, mi ammalai. Oggi, anche se non mi sento mai sicura della mia capacità, della mia integrità, del luogo in cui sto andando, non accade più».

Cos’ha capito invece dei suoi 34 anni?

«Che non si smette mai di imparare».

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 ??  ?? Miriam Leone, 34 anni, è nata a Catania il 14 aprile 1985. Dopo la vittoria nel concorso di Miss Italia nel 2008 e la conduzione di alcuni programmi televisivi ha esordito al cinema con Giovanni Veronesi in GENITORI & FIGLI - AGITARE BENE PRIMA DELL’USO due anni più tardi. In autunno è attesa da1994, in onda su Sky Atlantic, in cui interpreta Veronica Castello, da un importante ruolo nel DIABOLIK dei Manetti Bros. e da L’AMORE A DOMICILIO per la regia di Emiliano Corapi.
Miriam Leone, 34 anni, è nata a Catania il 14 aprile 1985. Dopo la vittoria nel concorso di Miss Italia nel 2008 e la conduzione di alcuni programmi televisivi ha esordito al cinema con Giovanni Veronesi in GENITORI & FIGLI - AGITARE BENE PRIMA DELL’USO due anni più tardi. In autunno è attesa da1994, in onda su Sky Atlantic, in cui interpreta Veronica Castello, da un importante ruolo nel DIABOLIK dei Manetti Bros. e da L’AMORE A DOMICILIO per la regia di Emiliano Corapi.
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