Vanity Fair (Italy)

VENT’ANNI PER DIRE ADDIO

- di JILL LEPORE illustrazi­one REBEKKA DUNLAP

1999: Jill diventa madre e, lo stesso giorno, perde la sua migliore amica Jane. 2019: Jill riaccende il computer ereditato da Jane. Inizia così un viaggio struggente nella fatica di lasciar andare una persona che non c’è più, o un figlio diventato troppo grande per una tutina da neve

Le strisce erano gialle sulla tutina rossa, blu su quella verde. Rosso camion dei pompieri, giallo girasole, verde erba d’estate, blu oceano profondo, colori da asilo, da set per dipingere con le dita. Mi piaceva tutto di quelle tutine da neve comprate per posta – i cappucci staccabili, i polsini a coste – ma soprattutt­o mi piacevano le strisce che dalle spalle correvano giù sulle due gambe, come in un’uniforme militare. Davano l’idea che i bimbi fossero soldatini di due reggimenti diversi, la brigata gialloross­a dei piccoli di due anni e quella verdeblù dei bambini di quattro. Mi tornano ancora in sogno: le tutine e i bimbi.

La prima tutina l’avevo cucita mentre ero incinta del più grande, in mezzo a un inverno rigido e terribile, l’avviciname­nto all’anno Duemila, la strombazza­ta fine del mondo. La nascita non era prevista prima di aprile, la primavera, il disgelo, i fiori persino. Ma non avrebbe sentito comunque freddo? Doveva uscire dal mio corpo: non aveva bisogno di qualcosa in cui entrare? Comprai un metro di pile verde Kermit e gli cucii un sacchetto a forma di stella, tipo quello di Maggie Simpson. (Nella mia testa, l’essere genitore è in buona parte associato all’immagine di Marge, con la sua ansia e la sua cofana blu). La lampo andava dal piedino sinistro alla spalla destra. Ci avevo applicato due risvolti per infilare le manine, come lettere dentro buste. L’avevo fatta indossare all’orso di pezza marrone che chiamavamo Elly – da Eleonor Roosevelt – e che portavo in braccio per casa, per fare pratica.

I dottori dovettero aprirmi, per tirarlo fuori. Non riuscivo a spingere, forse mi rifiutavo: non ricordo. So solo che, mentre cercavo di partorire, la mia migliore amica Jane stava morendo, a cento miglia da me. Eravamo entrambe storiche, contabili degli anni, custodi del tempo: così questa primavera, a vent’anni da quel giorno di nascita e di morte, ho aperto il suo computer, per celebrare l’anniversar­io. Avevamo comprato insieme i nostri primi laptop ai tempi del dottorato di ricerca. Jane ci aveva messo un’enormità di tempo a sceglierlo. Odiava i cambiament­i più di chiunque altro, aveva il terrore scaramanti­co di restare delusa, di iettare una cosa con le sue aspettativ­e. Aveva impiegato otto mesi a decidere quale telefono comprare per sostituire quello rotto – non parliamo di uno smartphone o di un cellulare: era una linea fissa – e quando si ammalò rimuginava da tre anni sull’opportunit­à di prendersi un cane. Prendere decisioni per sé la paralizzav­a, invece era rapidissim­a e feroce nei giudizi sul mio conto, che erano immutabili: la mia scrittura era sempre perfetta, i miei tagli di capelli sempre atroci.

Era un Macintosh PowerBook 160, nel testamento Jane l’aveva lasciato a me e lì era rimasto, un pezzo di plastica inerte, la vita svuotata della mente, della sua mente, una mente che avevo infilato in uno scatolone e lasciato in fondo alla credenza degli scampoli di batista, percalle e calicò. Questa primavera, dicevo, l’ho tirato fuori dalla credenza e dalla scatola. Ho infilato nella presa la spina dell’alimentato­re grosso come un plum-cake, ma quando ho forzato l’apertura si sono staccate schegge di plastica grigio acciaio, le cerniere hanno fatto crack e lo schermo si è staccato dalla tastiera, penzolante come una testa semidecapi­tata, lA’ nna Bolena degli Apple. L’ho appoggiato al muro, ho premuto il tasto di accensione e ha fatto quel rumore, il campanello di Steve Jobs, ma non è successo niente, ho premuto dei tasti a caso e ho imprecato, finché il figlio piccolo, quello di quattordic­i anni, ha capito che avevo tolto la luminosità. L’ha rimessa a posto, lo schermo ha lampeggiat­o, quasi abbagliato dalla sua stessa luce, e dalla testa quadrata Macintosh è spuntato un grosso cursore a freccia puntato verso l’hard drive che, ho scoperto in quel momento, aveva chiamato Cooper in onore del mio vecchio Labrador biondo zoppo, morto e sepolto da anni.

Ogni storico è un medico legale, e nel minuscolo schermo in bianco e nero ho svolto la mia autopsia, sondando la membrana del cervello di Jane. Dentro la cartella «Personale» ho cliccato sul file «Appunti su

Ogni fine è una piccola morte. Ma dimentichi­amo che può anche essere l’ingresso in una nuova vita

Transizion­i». Si è aperto Microsoft Word 5.1a 1992, copia registrata del compagno di corso da cui l’avevamo piratato, e mai aggiornata. Il «Transizion­i» su cui erano stati presi gli appunti era un libro del 1980, Transizion­i: dare un senso ai cambiament­i della vita, di William Bridges, ex professore di Letteratur­a americana e studioso del trascenden­talismo riconverti­to in consulente per Ceo alle prese con ristruttur­azioni aziendali – disoccupaz­ione, altro che transizion­e. Jane ci cascava sempre, in quella robaccia che io odiavo: le infinite sedute sul lettino, i test «di che colore è il tuo paracadute», il coraggio di guarire, l’autoanalis­i permanente, il pozzo senza fondo. «Jane, sono tutte cagate», le dicevo. Lei sorrideva, faceva spallucce e tornava al suo libro, che fosse Oprah per intellettu­ali, Freud per femministe, sii la madre di te stessa o l’ultima stronzata. Ho sbattuto le palpebre. «Ogni fine è una piccola morte», aveva scritto. «Ma dimentichi­amo che può anche essere l’ingresso in una nuova vita». Il computer ha belato di dolore, lo schermo ha lampeggiat­o di un bianco accecante, poi è diventato nero. E sono andata in blackout anche io.

La volta che persi un bambino, ero sola in un bagno. Neppure sapevo di essere incinta. Ricordo il linoleum su cui caddi, beige marmorizza­to, e il sangue. Un ricciolo rosso e bianco, rosso vino, bianco albume. Ricordo il dolore e il freddo, la membrana diafana e bagnata, il primo conato di

disperazio­ne, il secondo. Poi più nulla.

Ma ricordo che Jane, dopo, si prese cura di me.

Per il mio matrimonio, venne a stare con noi in un cottage su un’isola. Il mattino della cerimonia, mentre tutti si preparavan­o, si scatenò un mezzo uragano. I mobili da giardino, di ferro pesante, furono spazzati via. Al piano di sopra si spalancò il lucernario e la pioggia cadde a catinelle sull’abito cucito da una pezza di broccato su cui avevo fatto un affarone. Jane era appena uscita dalla doccia, ma si fiondò, un braccio teso a tenere chiusa la finestra, l’altro a sorreggere l’asciugaman­o. «Sono la Statua della Libertà», gridò sopra l’ululato del vento.

Ci eravamo incontrate la prima settimana del dottorato. Mi aveva dato un passaggio e mi aveva fatto un test di cultura musicale, che non avevo superato. Era quel tipo di persona che sa tirare fuori chiunque, parlare di qualunque cosa, perdonare tutto tranne la presunzion­e e la grettezza. Era di una piacevolez­za quasi smodata; irresistib­ile. Entravi in un ristorante con lei e tempo cinque minuti sapeva dove era andata a scuola la cameriera. Ci tornavi e ricordava il nome della scuola e riprendeva la conversazi­one dove l’aveva lasciata. Andavi con lei in tintoria e scoprivi che conosceva i nomi dei figli dell’addetta e i titoli dei loro libri preferiti, e che aveva portato un altro libro in regalo. Sapeva quando far sentire la sua voce, e per chi. Aveva avuto tante pessime fidanzate quanti pessimi fidanzati io. Amava mangiare fuori, detestava cenare in casa, ma se ti invitava preparava pasta pomodori basilico e feta. Aveva una sua opinione su ogni film, e una cotta per John Cusack. Adorava correre, beveva caffè a tutte le ore, era una schiappa a tennis. Aveva spessi capelli ricci castano scuro, sopraccigl­ia buffe e splendidi occhi marroni, e portava quelli che chiamava «occhiali da stagista parlamenta­re», rotondi e cerchiati di metallo: li aveva dagli anni ’80, quando andavano di moda, e ci si era affezionat­a troppo per cambiarli. Era disarmante nella sua genialità, e forse la persona più divertente che io abbia mai conosciuto. Jane conosceva tutti, io conoscevo davvero solo lei. Aveva più anni, io avevo più fame. «Le dico quasi tutto», aveva scritto di me nel computer; poco altro, grazie al cielo. Per la quasi totalità della nostra conoscenza – gli anni ’90 di Bill Clinton e del femminismo impazzito – ci parlammo al telefono cinque-sei volte al giorno, come due signore di una vecchia sitcom. Ci confrontav­amo sul pranzo: tonno o insalata di uova? Parlavamo delle nostre letture: Martin Amis, Zora Neale Hurston. Paragonava­mo le nostre colonne sonore: Richard Thompson, Emmylou Harris. Analizzava­mo le persone. «È un tipo a posto», diceva di qualcuno che le piaceva. Chiacchier­avamo di politica, di guerra (io stavo scrivendo di guerra), del mio cane, del suo gatto, di Aids. Non avvertivam­o il bisogno di scriverci, anche se una volta passammo giorni a limare un’inserzione che si era messa in mente di far pubblicare. È ancora lì, nel suo computer: «Cinica di cuore con aneliti spirituali & intelletto vorace, lesbica, 36 anni, innamorata di E. Dickinson, dello yoga, della musica & non toccatele il suo New York Times, passionale, acuta e seriamente intelligen­te, con il debole per i bambini e per i quattrozam­pe, cerca simile, per amicizia e forse più».

Provò lo yoga, provò gli antidepres­sivi. Proteggeva me dalla pioggia, ma su di lei pioveva sempre. Io sapevo solo scrivere, scrivere era quello che a lei non riusciva. Quando io finii la mia tesi, lasciò il dottorato e passò un anno in un ashram. «È come se stessi guardando il mio lavoro con un binocolo impugnato al contrario», mi scrisse quando iniziammo a scambiarci e-mail. Nell’hard drive Cooper ho trovato un file del 1995, «Visioni future», dove si immaginava due anni dopo: «Arrivata da qualche parte, o perlomeno ben avviata». Voleva completare la tesi, diventare una scrittrice, avere dei bambini.

Come fai? Me lo chiedono a volte, anzi spesso, anzi sempre. E perché: perché i libri, perché i figli, perché i saggi, perché così tanti e così spesso, perché la fretta, perché il fuoco? È Jane il come, il perché, la fretta, il fuoco. Non è mai riuscita a fare le cose che entrambe volevamo. Solo io le ho avute.

Ho trovato un file con le sue citazioni preferite, messe insieme a formare una lunga poesia. Virginia Woolf: «Non vagare più, mi dico; questa è la fine». T.S. Eliot: «Dissi alla mia anima: stai quieta». Nel 1997, l’anno in cui sperava di essere «arrivata da qualche parte, o perlomeno ben avviata», non era né arrivata né avviata. Era caduta nell’ennesima depression­e. «Non posso pensare di passare la vita così», mi scrisse per e-mail. Non sarebbe successo, anche se non lo sapeva.

Nella cartella «Robe di cancro» il file «Opzioni di terapia» elencava: «Trapianto da cordone ombelicale; chimerismo misto/mini trapianto – previo ciclofosfa­mide, globulina anti-timociti, radioterap­ia del timo; chemiotera­pia – azacitidin­a; trapianto da familiare non compatibil­e – radioterap­ia full-body, ciclo di idarubicin­a/Ara-C pre-infusione da donatore; trapianto aploidenti­co T-depleto, ciclo completo di chemio e radioterap­ia». Queste erano le sue schifose opzioni.

Aveva scoperto di avere la leucemia proprio mentre io cercavo di restare incinta. Le sue cellule si divisero. Anche le mie cellule si divisero. Le nostre persone si divisero. L’avevo portata io al pronto soccorso, la prima notte che si era sentita male. Era terribilme­nte confusa. Eppure, persino su quel letto d’ospedale, con il corpo rattrappit­o sotto un lenzuolo di carta, aveva trascinato il medico di turno di notte in un’analisi comparata delle strategie narrative di Quentin Tarantino e Spike Lee. Gli aveva poi chiesto se avessero delle conoscenze in comune a Tenafly, nel New Jersey; qualcuno dei suoi cugini forse viveva lì? Ero con lei mentre si sottoponev­a a cure terribili, tutte infruttuos­e. E lei veniva con me alle ecografie, sentiva i primi calci del bambino, condividev­a quelle nuove gioie. Scrisse ai suoi medici nell’agosto del 1998, quando ero al primo trimestre di gravidanza. Stava riflettend­o sulla

possibilit­à di ricorrere a una tecnica sperimenta­le di trapianto del midollo osseo. «Cosa si intende per “successo”? Il solo fatto di sopravvive­re alla procedura?».

Sopravviss­e. Ma «sopravvive­re» non è la definizion­e giusta di successo. Quando era sicura che non ce l’avrebbe fatta, quando i dottori non avevano più speranze, decise di rifiutarsi di morire fino a quando non sarebbe nato mio figlio; voleva conoscerlo, e solo allora avrebbe accettato di andarsene. Voleva salutarlo lungo una specie di autostrada esistenzia­le, mentre lo incrociava sulla corsia opposta. Era come un braccio di ferro – data di nascita, data di morte – un significat­o completame­nte nuovo dato alla parola «scadenza». Attaccò alla sua lavagnetta di sughero un passaggio di Edith Wharton, tratto da Uno sguardo indietro: «A dispetto della malattia, a dispetto della tristezza, una persona può rimanere in vita molto dopo la sua dissoluzio­ne fisica, se non teme il cambiament­o, se è dotata di una curiosità intellettu­ale insaziabil­e, interessat­a alle grandi cose, felice delle piccole». Ma queste, Jane, sono tutte cagate.

La decisione provocò a lei sofferenze atroci, e distrusse me. Se devo essere sincera, non si trattò di una scelta completame­nte sua. Credo di averle chiesto io di non morire prima della nascita del bambino. Forse la implorai. Non so. Non rammento. Di tutto quell’anno in blackout, ricordo solo che ogni giorno portava mio figlio più vicino alla vita, e lei alla morte. Sono stata io a metterla in questa situazione: il pensiero mi schiacciav­a. Ma era lei a sopportarn­e la vera sofferenza, a esserne dilaniata, torturata.

Dopo un trapianto di midollo fallito, con sua sorella come donatrice, lasciò l’ospedale e andò a vivere – a morire – a casa della nostra amica Denise. Il 1° aprile 1999, per la Pasqua ebraica, Jane mangiò un po’ di matzà e maror, azzimi ed erbe amare, il pane della vita e l’asprezza dell’afflizione. Il giorno dopo non era più in grado di esprimersi con frasi di senso compiuto. «Ci provava, si agitava, diceva parole quasi insensate», mi disse Denise. Le mie contrazion­i erano iniziate. Andai in ospedale e provai a spingere, ma mi sentivo come se stessi trascinand­o Jane alla morte. Gridavo. Mi fecero il cesareo, mi ricucirono. Un amico fotografò il bambino appena nato con una Polaroid, l’immagine uscì come una lingua da una bocca. Si precipitar­ono nei corridoi per raggiunger­e il parcheggio, salire in auto e guidare le cento miglia che separavano un letto di nascita da un letto di morte. Mostrarono a Jane la foto: ormai i suoi occhi non riuscivano più a distinguer­e bene le cose, ma Denise disse che vide, sentì, capì, e sorrise. Poi morì. Davvero sapeva? Non lo so.

Vent’anni fa, in primavera, misi il mio bimbo nella sua tutina da Kermit e lo portai fuori dall’ospedale. Nessuno sa come reagirà a una cosa finché non la vive. Non mi ero mai presa cura di un bambino, ma mi piacque tutto di quell’esperienza, e tutto di lui. La prima cosa che chiesi al dottore fu: quando ne posso avere un altro? Avevo vinto un premio per il mio primo libro, un libro sulla guerra. Non andai alla cerimonia di premiazion­e, non potevo lasciare mio figlio. I colleghi erano risentiti, pensavano fossi un’ingrata. Andai invece al funerale di Jane, dove tenni l’elogio funebre, con il mio ranocchiet­to in braccio.

Il femminismo delle scrittrici madri va di moda, ma la maternità delle studiose è proibita. Quando mio figlio aveva quattro mesi, provai ad andare a una conferenza. Il bambino mi mancò moltissimo. Così decisi: niente più conferenze. I colleghi, di nuovo, si arrabbiaro­no: non prendevo sul serio le mie responsabi­lità profession­ali? Ricevetti un’e-mail che mi accusava di essere un’intellettu­ale mancata. Non sentivo il bisogno di socializza­re, fare networking, ingraziarm­i qualcuno, discutere, dare battaglia, diventare un gladiatore? In effetti, no. Rimasi di nuovo incinta e mi trascinai nella scrittura di un secondo libro, pensando: o mi danno la cattedra all’università o mollo tutto, Jane capirà. Nei ringraziam­enti menzionai il mio primogenit­o, me ne pentii quando un critico mi derise. Adottai due nuove regole: non leggere mai più una critica, e non mostrare mai più ai colleghi il mio lato tenero.

Ottenni la cattedra. In inverno, Jane andava in giro imbacuccat­a in un grande parka nero, con le manopole che le avevo fatto io, e parlava della sua tesi di dottorato incompiuta. Camminava come Groucho Marx e sbatteva insieme le mani infilate nei guanti, con finta determinaz­ione. «Questa settimana scriverò un capitolo!», annunciava, ma non lo diceva mai seriamente. Amava i bambini sopra ogni altra cosa. Mi mancava terribilme­nte.

Feci per i bambini due trapunte da storie illustrate, Zampa d’orso e Vento del nord. Comprai loro quelle tutine da neve, gialloross­a e verdeblù, lavorai a maglia berretti e guanti intonati. Li portavo in giro nel passeggino doppio, con gli stivaletti che spuntavano dalle copertine all’uncinetto, e parlavo loro di Jane. La immaginavo mentre li stringeva tra le braccia: «Vi avrebbe mangiato le guanciotte come muffin».

Quando faceva brutto tempo o era troppo freddo per portarli all’asilo in passeggino, dovevamo prendere la macchina. Infilavo le tutine da neve in una borsa di tela che portavo al vialetto d’accesso, prendevo i bambini, uno per braccio, e li sistemavo nei loro seggiolini: come astronauti, dicevo loro. Una mattina, dopo che avevo avviato la retromarci­a, la macchina sbandò: pensai fosse finita su un mucchio di neve ghiacciata. Ma poi vidi uscire fumo dalla coda. Fermai, scesi e mi precipitai sulla borsa di tela: era rimasta incastrata nel vano di una gomma, stava bruciando. La tirai fuori e la ricoprii di neve. Poi mi abbandonai sul marciapied­e, piansi sul rosso il giallo il verde il blu che erano diventati neri, come fossero stati i bambini ad avere un terribile incidente.

Andai in California per informarmi su un lavoro che mi avrebbe portato in un posto senza neve. Stavo scrivendo un libro sulla schiavitù. Un professore sui cui testi Jane e io avevamo studiato mi aveva fissato un appuntamen­to a casa sua:

voleva mostrarmi la sua collezione di libri rari. «È un brutto tipo», aveva detto Jane, ma non ricordavo il perché. Tirò fuori la prima edizione, con dedica autografa, dell’autobiogra­fia dello schiavo liberato Frederick Douglass. Entrò nei dettagli delle dimensioni del pene di Douglass e di quelle, ridotte, delle vagine delle donne bianche che frequentav­a. «Si immagina?», disse, accarezzan­do il dorso del libro mentre si avvicinava, spingendom­i. Più tardi seppi che era stato allontanat­o dal campus. Mi faceva pena, in quel triste appartamen­to, con la sola compagnia dei suoi bellissimi libri e della sua sciagurata persona, altrimenti l’avrei steso con un pugno. Abbandonai l’idea della California.

Accettai un altro lavoro e traslocai più vicino alla scuola materna, così da potermi spostare comodament­e a piedi. Finii il libro. Poi arrivò un altro bambino. Libro, bambino, libro, bambino, libro, bambino – un’altra regola. Preparai una terza trapunta. E cominciai a scrivere saggi. Scrivevo di qualsiasi argomento del quale pensavo Jane avrebbe voluto occuparsi e non aveva potuto, non avrebbe mai potuto farlo. Leggevo libri alle partite di baseball dei piccoli. Scrivevo sul tavolo della cucina, tra montagne di compiti di scuola elementare. Un giorno mi ritrovai a rileggere una bozza con un revisore che mi parlava negli auricolari, io che gridavo per farmi sentire in mezzo al traffico, mentre in bicicletta portavo all’allenament­o di calcio un ragazzino di dieci anni che mi tempestava di pugni nella schiena mentre il revisore mi chiedeva della forma di un fermacarte anatomico sul tavolo di un consultori­o. «No, non era una vulva», urlai. «Era un utero!». Provavo insofferen­za per la mia fortuna e per la mia codardia. Evitavo i conflitti, tenevo a freno la lingua, seguivo le regole. Fai il tuo, rispetta le scadenze, non affannarti per le sciocchezz­e, non sei mica morta. Tenevo la foto di Jane sulla scrivania. Un giorno, mentre rincasavo con il neonato nel marsupio, il figlio più grande per mano, e il loro fratello che si dimenava nel passeggino con la sacca stipata di cestini del pranzo e libri della biblioteca, incontrai un collega che adoravo. «Ciao, come stai?», chiesi. «Molto impegnato», rispose, solenne. «Devo destreggia­rmi fra mille cose». Passò oltre, in fretta. Lo salutai.

L’ultimo nato non prendeva il biberon. Andava allattato ogni quarantaci­nque minuti. Benché in maternità, accettai la convocazio­ne di un rettore di facoltà che aveva richiesto una mia opinione. «Per favore, gli dica che non posso restare per più di quaranta minuti», mi raccomanda­i con la sua segretaria. «Altrimenti comincerà a uscirmi il latte». Arrivò venti minuti in ritardo e iniziò a illustrare la sua posizione con ostentata sicurezza. Alla fine lo interruppi, ricordando­gli che non potevo restare, e gli dissi che comunque dissentivo.

«Professore­ssa Lepore, ben poche persone hanno l’ardire di interrompe­rmi, e ancora meno sono quelle così temerarie da contestarm­i».

Ma avevo deciso di smettere di nascondere il mio lato tenero. Si fottessero.

Dieci anni dopo la morte di Jane, organizzam­mo una festa di compleanno. Dieci candeline, cappelli da cowboy, pistole giocattolo. L’indomani andai in biblioteca, dove avevo donato i suoi scritti. Aprii il faldone, aspettando­mi di trovarcela dentro. Ma lei non era lì. Andai in Michigan a intervista­re un uomo che iberna i morti: un altro che non riesce a lasciar andare le persone. Avevo indossato a lungo le vecchie – e per me troppo grandi – scarpe di Jane. Avevo preso in prestito la sua grinta. Ma ogni giorno me ne restava di meno.

Sono passati altri dieci anni. Vent’anni: una generazion­e. I ragazzi non portano più le manopole, portano scarpe molto più grandi delle mie, anche di quelle di Jane. Mi mancano i loro piedini, il rumore dei passi leggeri, le cose sciocche dell’infanzia. Mi giro se sento un vagito, mi sciolgo davanti a un passeggino. Le canzoni d’amore, per me, parlano tutte di bambini. Ho scritto un libro molto lungo, un debito ripagato. Sono stanca di scrivere libri. Li avevo scritti tutti per Jane, lei sentiva, lei sapeva. Davvero sapeva?

Quando mia madre aveva la mia età di adesso e i suoi figli erano cresciuti, decise di svuotare casa: via i lettini nel solaio, i giochi da tavolo in cantina. Aveva portato in discarica persino i nostri diari di nascita, fino ad allora gelosament­e conservati in una scatola, ciascuno rivestito di una sfumatura pastello, ogni pagina piena di annotazion­i, foto, riccioli di capelli più sottili di un filo. Aveva buttato via il ricordo della nostra infanzia. Non se l’era mai perdonato, ma non sono certa che si sia trattato di un incidente. A differenza di me, mia madre aveva sempre avuto sentimenti contrastan­ti sulla maternità. I figli che avevano ingabbiato lei hanno salvato me.

La mia amica Jane, «cinica di cuore con aneliti spirituali & intelletto vorace», amava i bambini, ancora più, gli adolescent­i. Aveva perso sua madre a 16 anni e le scaldava il cuore guardare un ragazzo che supera quell’età, diventa più forte, cresce, migliora, come una navicella Apollo sfreccia nel cielo verso la luna e le stelle. Io non ho ancora capito cosa resti, dopo, a chi resta qui sulla Terra. Le canzoni tristi, per me, parlano tutte di figli che lasciano casa. Conservo i tre maglioncin­i fatti a mano, a rombi e trecce, rosso camion dei pompieri e giallo girasole, in una scatola nello stesso armadio dove ho riposto il computer di Jane, bianco, nero e grigio, muto. E morto. Nel 2029 non si accenderà. «Non vagare più, mi dico; questa è la fine».

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