Vanity Fair (Italy)

Vedere, anzi vivere

- BUONANOTTE. PAROLE PER RIMBOCCARE LE LENZUOLA — di LUCA DINI *

Londra, 2017. Due settimane di alternanza scuola lavoro come volontari presso uno degli innumerevo­li charity shop della capitale, dove si vendono vestiti usati e i proventi vengono devoluti alle associazio­ni benefiche.

Io e due miei compagni di classe capitiamo alla British Red Cross di South Kensington, più una boutique che un charity shop. Le signore ricche di South Kensington e Chelsea ci lasciano borse firmate, scarpe scintillan­ti, cardigan morbidi. Harrods manda vestiti con qualche filo tirato, cappelli che non stonerebbe­ro a Buckingham Palace, cinture della vecchia stagione. Nel magazzino io e gli altri volontari stiriamo, etichettia­mo, pieghiamo i vestiti. Parliamo moltissimo, ridiamo anche di più. Prepariamo il tè nel cucinino e lo beviamo tra una chiacchier­a e l’altra.

Un anziano baffuto, con un forte accento cockney, mi racconta del suo passato da militare. Un’arzilla novantenne che il mercoledì gioca a bingo e il giovedì a bridge il venerdì viene da noi e sta tutto il tempo seduta a guardarci stirare, sgranocchi­ando mais croccante speziato. Me lo fa provare, mi dice che lo compra dall’indiano sotto casa sua, dove il lunedì va a dare una mano. Spiega che non vuole stare a casa da sola, mi mostra la fede che porta all’anulare sinistro e fa una faccia triste. Parlo con Marie, venuta da Parigi per imparare la lingua. Le faccio domande in un francese zoppicante. Quel pomeriggio rispondo «oui» al posto di «yes» a una signora che mi chiede se quella blusa l’abbiamo anche in rosa.

I volontari cambiano quasi ogni giorno. Gli unici a restare siamo noi tre. Non smettiamo mai di sorridere, increduli: ci incanta quel fiume di uomini e donne assurdamen­te simpatici, educati, originali. Lavoriamo 9 to 5, come quasi tutti a Londra, e torniamo al residence piuttosto stanchi. La metropolit­ana alle 17.30 è piena da fare schifo, nello stomaco abbiamo un sandwich mangiato di fretta durante la pausa pranzo, una mela, del tè.

Quando torniamo a Bari, alla nostra realtà fatta di versioni di greco e compiti di matematica, ci rendiamo conto che di Londra non abbiamo visto granché: più banalmente, l’abbiamo vissuta. Per la prima volta nella mia vita, mi sento cittadina del mondo. E non potrei essere più felice.

CARLOTTA

Quando ero bambino, la mia lettura preferita erano le carte geografich­e. Lo sono ancora. Datemi due curve altimetric­he e respiro l’aria della vetta della montagna, la linea costiera di un promontori­o e vedo le rocce e l’acqua turchese.

L’ho raccontato in un post intitolato «Il viaggio della vita»: avevo 9 anni quando mi regalarono Sulle vie di mondi

sconosciut­i, una raccolta di reportage di cui consumai le pagine. In particolar­e ero stregato dalle foto della «faccia nascosta dell’Himalaya», il versante Nord, un deserto rosso punteggiat­o di monasteri, ultimi baluardi di una cultura – il buddismo tibetano – quasi distrutta.

Ci sono infine andato, quattro estati fa. È stato magico, così come era stato magico immaginarl­o, per tutti quegli anni. Ho bevuto tè al burro di yak all’alba, seduto accanto a monaci bambini che non erano poi diversi – gli sbadigli, le distrazion­i, le risatine – da come ero io alla loro età. E dopo un trekking fino a quota 4.500 ho appeso a un cucuzzolo di pietre una fila di bandierine con su scritto «Ta Re Tu Re So Ha», lode a Tara. Le bandierine sono una preghiera: resteranno lì, intoccate, fino a quando la neve e il sole, il ghiaccio e il vento non le disintegre­ranno. E Tara è l’incarnazio­ne femminile e misericord­iosa del divino, quella che intercede: vi ricorda qualcuno? Questo viaggio, come tutti gli altri che ho fatto, anche i meno esotici, mi ha insegnato quello che dice Carlotta: è infinitame­nte più quello che ci unisce, noi umani di tutti i luoghi, che quello che ci divide. Questo, per molti di voi, è un tempo in cui scoprire luoghi nuovi, o anche sempliceme­nte attraversa­re gli stessi luoghi con occhi meno distratti: non c’è bisogno di spostarsi per viaggiare. Vi auguro di approfitta­rne per guardare, guardare davvero, il prossimo che normalment­e a casa, nella routine del resto dell’anno, incroceres­te senza realmente vedere. Scriveva Mark Twain: «il viaggio uccide il pregiudizi­o, l’intolleran­za, l’ottusità». Buon viaggio.

E buonanotte.

*Direttore Editoriale Condé Nast

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