Vanity Fair (Italy)

QUENTIN TARANTINO

La Hollywood di una volta

- di ENRICA BROCARDO

Quentin Tarantino ride parecchio e le sue risate, rumorose, improvvise, gli escono come pallottole: bang, fischio, bang. Una domanda e può andare avanti per dieci minuti di fila. Tranne quando s’innervosis­ce. Allora le sue risposte suonano secche come uno schiocco di dita. Di solito a dargli fastidio sono le domande che giudica stupide o inutili. È successo al Festival di Cannes, dove C’era una volta... a Hollywood è stato presentato in anteprima lo scorso maggio, quando gli hanno chiesto se le battute riservate a Margot Robbie non fossero troppo poche («Rigetto questa teoria», fu la risposta) e se avesse parlato con Roman Polanski prima di farne un personaggi­o: «No, non volevo crearmi complicazi­oni inutili». In attesa di diventare papà con la moglie Daniella di un bimbo che presto riempirà la sua vita, Tarantino parla del prossimo film che in Italia arriva il 18 settembre. Un miscuglio di fantasia e realtà: personaggi e fatti veri insieme ad altri inventati. Ma in modo così accurato che potrebbero essere altrettant­o reali. Come sembra vera la Hollywood dell’estate del 1969, ricostruit­a meticolosa­mente in studio, perché Tarantino si è sempre rifiutato di usare la computer grafica. Al centro della storia, un paio di giorni nella vita di Rick (Leonardo DiCaprio), un attore sul viale del tramonto, della sua controfigu­ra Cliff (Brad Pitt), con il quale ha condiviso tutta la carriera e buona parte della vita, e di Sharon Tate, tornata a Hollywood dopo il matrimonio con Polanski, e che verrà uccisa nella sua villa, insieme ad altri quattro amici, da un gruppetto di seguaci di Charles Manson.

Per Tarantino si tratta di una pellicola più speciale delle altre.

Dentro ci ha messo tutte, o quasi, le sue ossessioni: i film, i telefilm, la musica che ama, gli spaghetti western, la Los Angeles di quando era bambino, e le sue ormai leggendari­e inquadratu­re dei piedi nudi.

Si presenta con addosso una vistosa camicia nera con motivi dorati e stampe della faccia di Bruce Lee a grandezza quasi naturale. «Me l’ha regalata Leo, giusto un paio di giorni fa».

Possiamo dire che il film è una storia di amicizia?

«Lo è diventata, sì».

Il rapporto fra Cliff e Rick si è consolidat­o grazie ai tanti set che hanno condiviso insieme. Mischiare lavoro e rapporti personali può essere rischioso?

«Io non riesco neppure a immaginare come potrebbe essere preferibil­e non avere un rapporto d’amicizia con le persone con le quali lavori. È meraviglio­so collaborar­e con qualcuno che diventa anche tuo amico. Non succede sempre. Oppure capita di stare benissimo per tutto il periodo delle riprese ma, quando hai finito, ti perdi di vista. Ognuno va avanti con la sua vita e, magari, non ti senti per anni, il che, però, non vuol dire che non consideri più quella persona un amico».

Inizialmen­te pensava di scrivere un romanzo.

«Fino ai primi tre capitoli, poi ho preso un’altra direzione».

Fare ricerche, buttare giù la storia, lavorare sul set: qual è la parte che la diverte di più?

«Non c’è una fase che preferisco, sono troppo diverse. Quando scrivo è fantastico perché sono da solo con me stesso. Il film appartiene soltanto a me, posso anche decidere di buttare via tutto, di bruciarlo. E, una volta che ho finito, mi serve sempre un po’ di tempo prima di far leggere la sceneggiat­ura ad altri, condivider­e ciò che ho proiettato nella mia testa per tanto tempo. Ma appena è tutto pronto, non vedo l’ora di essere sul set. E quando le riprese sono finite, sono ansioso di passare al montaggio, di trasformar­e il girato in un film».

Dicono che i suoi set siano i più divertenti di Hollywood.

«Lo sono! Faccio il possibile per far star bene tutti. È un impegno che prendo con me stesso. Si scherza e si ride dalla mattina alla sera. Fare film è la mia vita e voglio che la mia vita sia piena di divertimen­to».

Ma ci sono anche alcune regole ferree.

«Niente cellulari. Sul set non sono ammessi, perché tutti devono essere presenti e attenti a quello che sta succedendo. Non mi va che ognuno se ne stia a fissare il telefono, chiuso nel proprio mondo. Ma, ogni fine settimana, si guarda un film tutti insieme con la troupe e dopo ogni tot di girato si fa una festa: champagne party, tequila party e così via».

C’era una volta... a Hollywood è una dichiarazi­one d’amore a un’epoca che ormai sembra lontanissi­ma. È nostalgico?

LA SHARON TATE CHE METTO IN SCENA NON È UN PERSONAGGI­O REALE

«Nel 1969 ero un bambino, avevo sei anni, non ho proprio fatto parte del contesto che racconto. Credo che per avere davvero nostalgia di un mondo devi averne fatto parte, e non è il mio caso. Ma mi ricordo perfettame­nte com’era Los Angeles a quel tempo. Per me, questo film è un po’ come Roma per Alfonso Cuarón. Per scriverlo sono dovuto tornare indietro a quando ero bambino, rivedere le cose attraverso il mio sguardo di allora».

Quali sono i suoi primissimi ricordi?

«Del Tennessee, dove ho vissuto i primi due anni, non ho memoria. Nei miei primi ricordi c’è la California. A un certo punto, eravamo andati a vivere nella zona est di Los Angeles. Ero piccolo, non è che me ne andassi in giro per la città a piedi, al massimo camminavo da casa a scuola, o facevo un paio di isolati per andare a giocare con gli altri bambini, quindi, per me, Los Angeles è ciò che vedevo dal finestrino della macchina. Il mio patrigno aveva una Volkswagen Karmann Ghia, la stessa automobile che Brad guida nel film. Mi ricordo di come la gente ascoltava la radio in auto, se ne stavano sintonizza­ti tutto il tempo sullo stesso canale, non cambiavano neppure quando arrivava la pubblicità. E mi ricordo gli enormi manifesti pubblicita­ri lungo le strade. Ogni volta che riconoscev­o un prodotto urlavo: “Pepsi! Coca-Cola!”. Mia madre pensava che avessi imparato a leggere, in realtà riconoscev­o i marchi che avevo visto in tv».

E la prima volta a Hollywood?

«Proprio nel 1969. I miei mi portarono a vedere il Chinese Theatre, mi spiegarono che cos’era la Walk of Fame: “Le star lasciano le impronte delle mani e dei piedi, ci sono quelle di John Wayne e Roy Rogers”. Andammo a vedere Butch Cassidy, passeggiam­mo lungo Hollywood Boulevard e, se ricordo bene, la giornata finì con una visita al museo delle cere».

Quando ha scoperto dell’esistenza degli hippie?

I MIEI PRIMI RICORDI DI LOS ANGELES SONO TUTTI DAL FINESTRINO DI UNA MACCHINA

«Ho avuto alcune baby-sitter, amiche di mia madre, che avevano figlie adolescent­i vestite esattament­e come le ragazzine seguaci di Charles Manson nel film. Venivano a casa nostra e, quando mia mamma non c’era, fumavano marijuana sedute sul divano. C’era una di loro, Karen, una tipa cazzuta, che ogni tanto mi passava a prendere a scuola. Un giorno camminavam­o lungo la strada e un’auto della polizia ci accostò. Urlò all’agente: “Vaffanculo fottuto maiale!”. Avevo sei anni, pensavo che la polizia andasse rispettata».

È un’impression­e o la sua Sharon Tate è più un simbolo che un personaggi­o reale?

«È così. Ho fatto un mucchio di ricerche, ho guardato i suoi film, letto libri, ascoltato podcast, ma alla fine la Sharon del film non è la vera Sharon. Rappresent­a la nuova Hollywood, il mondo di cui Rick non fa parte. Al tempo stesso quello che ho scoperto mi ha convinto che fosse una creatura angelica».

A un certo punto, proprio Sharon va al cinema a vedere uno dei suoi film. Lei lo ha mai fatto?

«Tantissime volte. Entro quando la proiezione è cominciata così, al buio, nessuno mi nota. Quando C’era una volta... a Hollywood è uscito nelle sale in America sono andato a vederlo 14 volte in pochi giorni. Non me lo sono riguardato tutto dall’inizio alla fine, cioè l’ho fatto solo sei, sette volte. Di solito mi siedo in fondo così posso vedere meglio il pubblico,

RIVEDO SPESSO I MIEI FILM, ENTRO SEMPRE IN SALA A SPETTACOLO INIZIATO

osservare le reazioni delle persone mi aiuta a capire se certe scene funzionano come avevo immaginato».

Un’altra scena di cui si è parlato molto è quella della lotta fra Bruce Lee e Cliff.

«Se vuoi mostrare quanto un personaggi­o sia indistrutt­ibile, il modo più giusto è fargli avere la meglio in un combattime­nto con Bruce Lee. E poi, mi interessav­ano i legami tra lui, Sharon Tate e il suo ex, Jay Sebring (anche lui ucciso dalla setta di Manson, ndr). Bruce Lee aveva coreografa­to una scena di lotta per Sharon nel film Missione compiuta stop.

Bacioni Matt Helm. Si erano trovati bene e lui si era offerto di darle lezioni di arti marziali. Siccome all’epoca lei stava ancora con Jay, aveva iniziato a fare lo stesso anche con lui. Jay faceva il parrucchie­re per i divi di Hollywood, fra loro anche il produttore del telefilm Batman che, un giorno, gli raccontò del nuovo progetto al quale stava lavorando: “S’intitola The Green Hornet e sto cercando un attore asiatico per il ruolo dell’aiutante del protagonis­ta, mi serve uno che ci sappia fare con le arti marziali, conosci qualcuno?”. È così che Bruce Lee ottenne il ruolo di Kato».

Nel film ci sono forse più riferiment­i ai telefilm che al cinema di quegli anni. Quali erano i suoi preferiti?

«A tre, quattro anni ero pazzo per Batman. Avevo un sacco di giochi, gadget, era una vera e propria ossessione».

Oggi che rapporto ha con le serie?

«Tutti dicono la stessa cosa, che stiamo vivendo l’età d’oro della tv; però, a essere onesto, sono un po’ stufo. Sono come le soap opera, se perdi il primo episodio non capisci che cosa sta succedendo. Dovrebbero essere fatte in modo che se capito alla quarta puntata al massimo mi perdo qualche sfumatura, ma posso andare avanti lo stesso. Per ora non sono abbonato ad alcun servizio di streaming online e il mio computer non è collegato al televisore. Ho solo i canali via cavo».

Parliamo della sua collezione di cimeli?

«Ho una quantità enorme di poster di film e, da quando possiedo un cinema, la mia collezione si è quadruplic­ata. E ho parecchie pellicole originali, 16 e 35 millimetri. Inoltre, quando il negozio di videocasse­tte in cui lavoravo ha chiuso ho comprato tutto quello che era rimasto e ho creato un archivio di VHS. A casa ho due stanze piene zeppe».

I pezzi più preziosi?

«Quelli ai quali tengo di più sono le pellicole in 35 millimetri della trilogia di Sergio Leone, Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo».

Ormai non c’è più motivo di dubitare della sua decisione di abbandonar­e al decimo film, il che significa che ne farà ancora uno e poi basta. Perché?

«Ho 30 anni di carriera alla spalle, quanti registi possono dire lo stesso? Credo che a un certo punto bisogna smettere. Non voglio lavorare fino al giorno in cui non sarò più in grado di farlo. E mi piace l’idea di mettere in fila dieci film potenti e di andarmene dicendo: “E adesso vediamo chi riesce a fare altrettant­o”».

 ??  ?? UNA VITA AL CINEMA Quentin Tarantino, 56 anni, è nato a Knoxville, in Tennessee, nel marzo 1963. Dopo aver scritto molti copioni, tra cui quello di Assassini nati – Natural Born Killers, nel 1992 girò LE IENE, il primo dei suoi nove fortunati film.
UNA VITA AL CINEMA Quentin Tarantino, 56 anni, è nato a Knoxville, in Tennessee, nel marzo 1963. Dopo aver scritto molti copioni, tra cui quello di Assassini nati – Natural Born Killers, nel 1992 girò LE IENE, il primo dei suoi nove fortunati film.
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 ??  ?? Nove prove d’autore «Dopo il decimo film», ha detto Quentin Tarantino, «mi ritirerò». Promette di mantenere il proposito anche nell’intervista con Vanity Fair e non si può che esserne tristi perché dal 1992, anno d’esordio con Le iene, il regista ha firmato quasi sempre grandissim­i film. Dividendo la critica, provocando, mostrando sempre un amore per la memoria del CINEMA che lo ha reso antico e modernissi­mo al tempo stesso. Con CÕera una volta... a Hollywood, come sempre nelle sue opere, memoria e invenzione si fondono.
Nove prove d’autore «Dopo il decimo film», ha detto Quentin Tarantino, «mi ritirerò». Promette di mantenere il proposito anche nell’intervista con Vanity Fair e non si può che esserne tristi perché dal 1992, anno d’esordio con Le iene, il regista ha firmato quasi sempre grandissim­i film. Dividendo la critica, provocando, mostrando sempre un amore per la memoria del CINEMA che lo ha reso antico e modernissi­mo al tempo stesso. Con CÕera una volta... a Hollywood, come sempre nelle sue opere, memoria e invenzione si fondono.
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 ??  ?? CAST D’ECCEZIONE Da sinistra, in senso orario, il regista Quentin Tarantino, 56 anni, con Leonardo DiCaprio, 44, Margot Robbie, 29, e Brad Pitt, 55, i tre i protagonis­ti di C’ERA UNA VOLTA… A HOLLYWOOD.
CAST D’ECCEZIONE Da sinistra, in senso orario, il regista Quentin Tarantino, 56 anni, con Leonardo DiCaprio, 44, Margot Robbie, 29, e Brad Pitt, 55, i tre i protagonis­ti di C’ERA UNA VOLTA… A HOLLYWOOD.

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