CARLO CRACCO
Andiamo a comandare (in tv)
Ha imparato dai grandi ma non ha mai obbedito a nessuno. Lo chef vicentino più famoso d’Italia ha sempre preferito comandare. Anche ora che, dopo due anni di assenza, torna in tv a dare un po’ di ordini
Chiacchierare con Carlo Cracco è come consumare uno dei suoi menu degustazione: le risposte partono vaghe come vago è il gusto della celeberrima insalata russa caramellata, prima che il guscio si sbricioli e il sapore dell’uovo si sprigioni.
Bisogna attendere che la dichiarata avversione per le interviste («quando voglio rilassarmi ne faccio una», ironizza) si faccia da parte perché il tono lento e monocorde si colori di aneddoti e confidenze. Seduto su un divanetto dell’ala privé del suo ristorante in galleria Vittorio Emanuele a Milano, grembiule stretto in vita e gomiti sulle ginocchia, per i primi venti minuti, lo chef 53enne ci rifila solo minestrine senza sale: quando gli chiediamo un ricordo del suo maestro Gualtiero Marchesi, risponde «ce ne sono tanti», se gli domandiamo il piatto che ordinerebbe prima di un’esecuzione capitale ribatte «e perché mai dovrei finire condannato a morte?». Quando poi lo interroghiamo su quanto la popolarità televisiva abbia aiutato il suo business tocca vertici di incomprensibilità: «Con una mano ti lavi bene il viso, con due meglio». Fuor di metafora? «La visibilità aiuta». È per questo che, dopo due anni dall’addio a MasterChef, il 16 settembre torna in televisione con il nuovo live cooking Nella mia cucina? «In realtà no: ho accettato di fare questo programma perché il produttore è Scavolini, brand con cui collaboro da anni. Non volevano il solito spot, così hanno inventato un format divertente: in 15 minuti il partecipante della serata dovrà eseguire il piatto che gli spiego, senza vedermi mai. Saremo schiena contro schiena. Finito questo show, raddoppierò la mia assenza dalla tv: starò via almeno quattro anni, la volta dopo otto, fino a scomparire». Se sa già che potrà fare a meno della visibilità, vuol dire che gli affari vanno piuttosto bene qui in Galleria. «Molto bene. Quest’anno abbiamo persino vinto un premio come miglior cantina al mondo». Corre voce che, per mantenere il ristorante, lei debba guadagnare 30 mila euro al giorno. «Addirittura? Mi sembra troppo. Facciamo i conti».
Prende il cellulare, apre l’app della calcolatrice e comincia: «Tra feste e chiusure, lavoriamo circa 340 giorni all’anno: vorrebbe dire un guadagno di 10,2 milioni». Le sembra irrealistico, tra un affitto che, da solo, supera il milione e i dovuti stipendi ai circa 70 dipendenti? «Non lo so, i soldi non sono il mio obiettivo». Recuperare la stella Michelin perduta nel 2017 lo è? «Neanche: le stelle sono importanti, ma si sopravvive anche senza». Che cosa è vitale per lei? «Avere una visione: per realizzare il ristorante ho restaurato uno spazio abbandonato, gli ho dato nuova linfa e l’ho restituito alla città». Un benefattore! È questo suo spirito caritatevole che, in gioventù, le ha fatto venir voglia di diventare prete? «Era più che altro lo spirito di emulazione. Ho sempre frequentato l’oratorio, facevo il chierichetto. A Creazzo, in provincia di Vicenza, c’era un sacerdote giovane e bravissimo che coinvolgeva noi bambini in tutte le attività della parrocchia. Non solo: uno dei miei migliori amici era entrato in seminario. Ho cominciato a desiderarlo anch’io». Ma non è accaduto. «Mio padre, con un certo pragmatismo, ha detto: “Vista la retta da pagare, se hai tutta questa fede, puoi andarci anche dopo”». Invece preferì la cucina. «Avevo sempre fame. Pensavo che il modo migliore per mangiare fosse imparare a farlo». A casa sua chi cucinava? «Mia madre. Mio padre era ferroviere e si barcamenava con altri lavoretti per mantenere me e i miei tre fratelli». Tanto che lei ha iniziato a lavorare a 15 anni? «Già. Fino ai 18, davo tutto lo stipendio a casa. Tenevo solo 50 mila lire al mese: risparmiavo per comprarmi la bicicletta». Ha mai paura che i suoi bambini, nati in un ambiente molto più agiato, crescano viziati? «Io e Rosa (Fanti, sua moglie dal 2018, ndr) insegniamo loro che nulla va dato per scontato. Poi magari a 18 anni diventano dei deficienti, ma non sarebbe colpa nostra. I figli li puoi impostare, mica programmare. Per ora sanno che, finché ci sono io, devono rigare dritto». Quindi è lei il più autoritario dei due? «Ci alterniamo: sono severo quando Rosa è morbida e viceversa». Qualche tempo fa ha detto che sua moglie le ha insegnato a essere felice. «Sottoscrivo: mi ha fatto scoprire prima di che conoscerla c’è dell’altro. pensavo Per solo questo al lavoro, chiudo lei il ristorante Sfata il mito durante che la le ristorazione feste: dobbiamo sia uno anche degli goderci ambienti la vita». professionali più faticosi in assoluto. «Faticoso non direi. Sarà che, come sostengono i giovani, io sono della vecchia guardia: ho più energia». Nelle cucine di New York pare che la cocaina scorra a fiumi per reggere i ritmi. «Da me no. Se uno ha bisogno di surrogati per fare il cuoco, non è il suo mestiere». Lei quando ha capito che era il suo? «L’anno scorso, dopo aver aperto questo ristorante, che era il mio sogno». Però, che avesse talento, glielo dicevano da tempo: il suo primo datore di lavoro l’ha apostrofata con un memorabile «sei bravino ma non hai polso». «Avevo 16 anni e avevo già l’indole del capo: mandavo avanti la cucina da solo. Ma non nel modo in cui voleva lui. Magari ho sbagliato, però ho usato la mia testa. Sempre». Per questo non era l’allievo preferito di Marchesi? «Il suo discepolo era Paolo Lopriore: loro erano in sintonia su tutto. Io no». Era d’accordo con l’idea di tre maccheroni a 200 mila lire? «La capivo: venivamo da un periodo in cui si consumavano 150 grammi di pasta a cena. Gualtiero voleva scardinare questo modo di alimentarsi. Voleva insegnare ad assaporare anziché riempirsi e basta. Così provocava servendo tre maccheroni a un prezzo stellare». Non ha mai pensato di esportare questa rivoluzione all’estero e diventare, per esempio, lo chef italiano più rinomato d’America? «Ho avuto tante occasioni, ma sono italiano e preferisco restare: credo molto nel nostro Paese». E nel nostro governo? «Non parlo di politica». Nemmeno della situazione dei migranti sui barconi? «Io faccio da mangiare». Per loro lo farebbe? «Certo, cucinerei per tutti: poveri, meno poveri, disagiati, abbienti, rifugiati. Dietro ai miei fornelli non vedo differenze».
A 16 anni avevo già l’indole del capo: mandavo avanti una cucina da solo. Ma non obbedivo agli ordini: usavo solo la mia testa