TONI SERVILLO
E adesso faccio il killer pentito
Gli incontri eterogenei: «Senza aver conosciuto figure diversissime tra loro come Cesare Garboli, Leo De Berardinis o Carlo Cecchi, oggi sarei una persona differente». I nomi e i cognomi: «Potrei citarle a memoria la formazione della squadra di calcio in cui le davo e le prendevo da terzino destro, lo spogliatoio è democratico, dentro si cambiano fianco a fianco il figlio del commerciante e quello del mariuolo». I pomeriggi all’oratorio, con tanto sole, tanti anni fa: «Dalle due alle sette, ogni santo giorno. Afragola, dove sono nato, a pochi chilometri da Napoli, era la mia Isola di Arturo. Non c’erano neanche le strade asfaltate. Giocavo per strada con i figli dei contadini rincorrendo gli animali da un portone all’altro». A Toni Servillo, i ricordi servono per proteggere i suoi vizi: «Ancora adesso, a 60 anni, non c’è niente che ami di più che osservare gli altri. Ora, rispetto a Elias Canetti, è innegabile, io sono una cimice, ma condivido con lui la stessa passione. “La cosa che mi piace fare di più nella vita è prendere il tram a Vienna e vedere i miei simili”, diceva. Alla fine, l’avventura di un artista che sia un pittore, un regista o un poeta dovrebbe essere proprio questo: un’inchiesta sull’uomo. Io la conduco tutti i giorni. Crea il mio alfabeto. Un alfabeto che compongo e ricompongo e con il mio corpo metto in scena sul palco. Amo stare in mezzo all’umanità, guardarla, studiarla: è quasi un’ossessione». Per quasi un quindicennio gli ha somigliato anche 5 è il numero perfetto, la trasposizione cinematografica della premiatissima graphic novel di Igor Tuveri, per tutti Igort, in concorso alle Giornate degli Autori di Venezia: «Un’avventura su cui ragioniamo da tantissimo tempo. Forse allora, quando me lo proposero, ero troppo giovane mentre adesso ho l’età giusta per interpretare il protagonista».
Da dove parte l’avventura?
«Dall’esito incredibile di una graphic novel che superò in fretta i confini italiani. Al film erano interessati molti produttori internazionali e a un tratto si pensò di coinvolgere persino Johnnie To. Il rischio, strada facendo, era che la narrazione si allontanasse dalla semplicità del racconto originario. Se mi riconosco un merito è quello di aver sempre detto a Igort: “Giralo tu, buttati dietro alla macchina da presa nello stesso modo in cui getti la matita sul foglio”».
Che rapporto ha Toni Servillo con il fumetto?
«Per appartenenza generazionale non ci sono arrivato subito. Conoscevo il segno lasciato da quella cultura alternativa che a Bologna, negli anni ’70, aveva visto brillare Andrea Pazienza, Scozzari, Tamburini e tutti gli altri, ma per innamorarmi del fumetto ho dovuto fare autocritica, soffocare lo snobismo da cui è sempre difficile affrancarsi e tacitare quella voce che mi suggeriva: “Sì, sarà anche bello, ma in fondo non è letteratura”. Mi sbagliavo».
Come mai?
«Perché nel fumetto di Igort c’è già un notevolissimo linguaggio cinematografico e suggestioni e ispirazione fanno pensare a Melville, a Dick Tracy, a Cechov e anche alla sceneggiata napoletana».
Tante radici.
«Perché non è un film che naviga sulla superficie, un racconto pop nel senso deteriore del termine, ma un lavoro fitto di dialoghi e contenuti. Un vero film e non un film fumetto, in cui le parole sono importanti non meno di quello che si dice. Ci si ritrova dentro un napoletano non elementare, la lingua di Eduardo e di Viviani, un lessico in cui la precisione della parola corrisponde al difficile azzardo di esprimere non soltanto un concetto, ma un sentimento».
I sentimenti, soprattutto quelli taciuti, nel film rivestono un’importanza fondamentale.
«Ci sono molte sparatorie, ma è come se si sparasse con il silenziatore. C’è un invito implicito a guardare nel cuore dei personaggi e un richiamo alla nostalgia, al tempo che passa, all’amore che sfiorisce, alle cose che non tornano e non torneranno più».
Il sentimento di Peppino, il protagonista di 5 è il numero perfetto, cambia in corso d’opera.
«È un vecchio killer in pensione che crede di aver chiuso i conti con la vita e di aver trovato un erede nel figlio e che invece tutt’a un tratto si ritrova nudo, a doverla ricapitolare completamente e a scoprire che non esiste tranquillità senza la coscienza a posto e che, spesso, averla a posto altro non è che un’illusione o un passaggio doloroso in cui ti viene chiesto un prezzo da pagare. È un piccolo apologo morale sulla redenzione, questa storia».
Il rapporto tra padre e figlio, tra esempio ed eredità, c’era anche a casa sua?
«Ho sempre dormito poco e male e, come nel film di Igort,
ci incontravamo in cucina magari per bere un caffè a orari improbabili. Lui entrava, mi trovava pensieroso a guardare al di là della finestra e mi chiedeva soltanto: “C’è qualche problema?”. Rispondevo in modo interlocutorio, ma a lui bastava. Io e mio padre non parlavamo molto».
Oggi dorme più di ieri?
«Non fumo più, ma non ho smesso di star sveglio in piena notte. Non è che non riposi perché sono assalito da chissà quale rovello: dormo poco perché a letto, con gli occhi chiusi, mi pare di perdermi uno spettacolo che vale la pena di esser visto a occhi aperti».
Lei recita da 40 anni. Dal palco agli alberghetti di retroguardia, dai film da Oscar alle opere prime.
«Ho sempre guardato con grande ammirazione a quelle carriere costruite più sui no che sui sì e ho mantenuto la barra dritta concentrandomi con rigore e curiosità sul teatro. Non ho mai avuto una relazione obbligata con il mio mestiere. Non l’ho mai considerato alla stregua di un lavoro. Se salgo su un palco mi metto al servizio degli autori e delle maschere che interpreto. È un’esigenza interiore, altrimenti non saprei fare. Recito da 40 anni, ma ho fatto pochi film perché continuo a considerare il teatro la mia principale occupazione».
Qual è il premio per tanto girovagare?
«Nei limiti delle proprie capacità, riconoscersi in quel che si fa che poi significa somigliare a quello che si è. Così come c’è un tempo per tutto, non si può affrontare qualsiasi sfida. Ci sono volte in cui ti senti inadeguato e altre in cui senti che non c’entri niente con quello che ti viene proposto».
E chi è Toni Servillo?
«Uno che prova a non deludere e a non deludersi. Poche cose mi interessano meno dell’io e vivendo in una società narcisistica che si affida alla velocità, allo slogan e alla propaganda sottraendo al pensiero critico ogni centimetro, provo a difendermi proteggendo lo spazio di una ricerca teatrale che si muova in una dimensione pubblica, non occasionale e non commerciale e che provi a rinnovarsi con i temi, con gli argomenti, con le domande in luogo delle risposte. Chi ha troppe certezze non ne ha nessuna».
Lei quali certezze ha?
«Prima di tutto, quella di essere stato fortunato. La più grande occasione della mia vita è stata poter condividere dai 18 anni in poi un’esperienza che è stata insieme amicizia e professione, crescita personale e sperimentazione».
Parla di Teatri Uniti?
«Parlo di Mario Martone, di Angelo Curti, di Licia Maglietta, di Andrea Renzi e di tutti quelli con i quali, sotto il cielo di Teatri Uniti, ho discusso per crescere e migliorare. Un tempo si parlava, magari si litigava anche, ma dopo lo scontro ci si ritrovava sempre un passo avanti».
Oggi non accade più?
«Oggi si urla. Si vive in un perenne stato d’ansia e di allarme. Si aggredisce l’altro per affermare che si ha un proprio posto nel mondo. Siamo sovrastati da una società narcisistica in cui il protagonismo fine a se stesso è diventato una patologia. Bisognerebbe fermarsi, fare un po’ di silenzio, provare a innestare la retromarcia».
C’è troppo rumore?
«Si parla giustamente del problema dell’immigrazione incontrollata, ma lo si fa in maniera superficiale, ingigantendolo per fini elettorali sulla pelle dei disperati che muoiono quotidianamente in mare. Dall’altra parte non si fa nulla per un pianeta che stiamo uccidendo giorno dopo giorno. C’è quella formuletta patetica: “cambiamenti climatici” usata capziosamente in luogo della parola esatta».
E qual è la parola esatta?
«Tragedia. Qui parliamo di un luogo, la terra, che non ci sopporta più. Di un processo degenerativo iniziato moltissimo tempo fa. Altro che cambiamenti climatici».
È pessimista?
«Girerei la domanda e mi chiederei: “Come si fa a essere ottimisti?”. Quello che possiamo fare, come attori, è ridare dignità alle parole, non usarle come se fossero una scappatoia, ristabilire una proporzione tra il corpo e la mente. Il teatro può poco. È un’occasione per l’ecologia della mente, ma è un ago nel pagliaio».
E come uomini?
«Studiare. Informarsi. Riconoscersi un’ansia di conoscenza che poggia su un assunto: per quanto leggeremo, non colmeremo mai del tutto la nostra ignoranza. Oggi compro il giornale, leggo le riviste, mi appassiono alla letteratura che ho perso e sono felice di recuperare. Un tempo questo
Ho sempre ammirato quelle carriere costruite più sui no che sui sì: ho detto tanti no nella vita e non me ne pento
privilegio non ce l’avevo. Vengo da una famiglia piccolo borghese, in casa mia non c’era un libro».
Perché diventò attore?
«Perché un altro talento non ce l’avevo. Non scrivevo le mie memorie, non disegnavo, non dipingevo, non ero un poeta. Il teatro era un modo di raccontare diverso dall’autobiografia».
Prima ci ha detto che in proporzione agli anni passati in scena, ha interpretato pochi film.
«Una ventina in tutto. Il desiderio di rimpiangere è una tentazione da cui nessuno di noi è estraneo, però il rimpianto non mi appartiene. Sarei un ingrato e darei un pessimo esempio di me nei confronti di chi sogna di salire su un palco. Dopo tanti decenni mi sembra ancora di non lavorare nonostante faccia una fatica enorme perché spettacoli e film arrivino al pubblico».
Come dimentica la fatica?
«Combattendo il manierismo. Disegnando un capitolo sempre nuovo. Rilanciando. Rilanciando sempre».
Avrebbe potuto essere più ricco: una pubblicità, qualche film più popolare.
«Non mi interessa, non me ne è mai importato niente. Abito a Caserta, non me ne sono mai andato dalla trincea napoletana e, quando lo dico, lo dico senza un particolare orgoglio. È stata una scelta consapevole, libera, ponderata. Sono nato in provincia e resto un provinciale».
Con Paolo Sorrentino ha partecipato a cinque film.
«Pensare che il primo firmato da Paolo, L’uomo in più, non volevo neanche interpretarlo. Stavo portando in scena Il
misantropo, ero in compagnia di Molière e mi sembrava che se avessi dato attenzione all’opera prima di quello che era solo un ragazzo me ne sarei pentito amaramente. Avrei dovuto leggere il copione, ma titubavo. Con Paolo fui persino sprezzante: “Cosa vuoi che me ne importi della tua storia?”. Allora loro escogitarono un trucco: “Dimenticati della sceneggiatura, non la leggere proprio, tanto l’ha letta un altro”. Vellicarono la mia vanità e fecero bene».
Fu l’inizio di un lungo percorso.
«Con Paolo c’è un’avventura umana molto bella che è una fetta importante non nella mia carriera, ma nella mia vita».
In 5 è il numero perfetto ha ritrovato Carlo Buccirosso con il quale aveva diviso la scena nella Grande bellezza e ne Il divo.
«Carlo ha un talento immenso e in questo film, con raffinatezza, dimostra che non è solo un grande attore comico ma sa affrontare una parte nerissima con identica efficacia».
Il suo è un mestiere di grande competizione. Non l’attraversa mai l’invidia?
«Non ne sono immune, non mi voglio dipingere come un santo, ma è l’intelligenza che a un certo punto ti fa condire l’invidia con l’ammirazione e ti fa dire: “Quello che fa un altro io non l’avrei saputo fare nello stesso modo”. Non invidiare è una conquista morale, io godo nell’ammirare il talento altrui. Sa perché non ho mai portato in scena Shakespeare? Perché ho visto mettere in scena da Carlo Cecchi degli Shakespeare così belli che hanno tacitato il desiderio di provarci».
Cosa le ha sottratto il suo lavoro?
«Una risposta non me la sono ancora data, ma per usare un’espressione cara a Elena Ferrante, l’amore per il mio mestiere, in qualche modo, ha molestato la dimensione privata e quando dico privato non intendo soltanto la famiglia. Andando avanti nel tempo mi sono detto: “Coltivala di più, trova più momenti di relazione profonda con te stesso, allontanati dal flusso”».
Cos’è il flusso?
«Il flusso è una ragnatela in cui non mi voglio trovare impigliato. È ciò che rende tutto indistinto e ogni cosa uguale a un’altra, che schiaccia ogni ragionamento sul presente senza nessuna capacità di far rimbalzare il passato sul futuro. È un pericolo al quale mi sottraggo, da cui fuggo, dal quale non voglio farmi trascinare».
Eppure ha un attivissimo profilo Instagram.
«La prego di non farlo passare alla stregua di un passatismo, ma non ho idea di chi se ne occupi. Non ho Facebook, non ho Twitter, non ho Instagram e – giuro – non ho neanche una mail. Non sono connesso, ma non è un vezzo, ho soltanto la fortuna di poterne fare a meno».
Di cosa non può fare a meno invece?
«Di ammirare, di sorprendermi, di meravigliarmi. Forse perché vengo da una famiglia che si sedeva in poltrona e applaudiva. Mio padre e i suoi due fratelli, due scapoli impenitenti, erano soprattutto spettatori. Frequentavano assiduamente teatri e cinema e hanno trasferito a me e a Peppe, mio fratello, il senso dello stupore».
Che cosa ha capito a 60 anni che non aveva capito a 20?
«Come proteggermi convenientemente dalle cazzate. La sciocchezza, da giovane, è sempre in agguato».
E nella maturità?
«Sempre in agguato resta, ma hai gli strumenti per evitarla».