MATTIA FELTRI
Il magistrato libertino
Nulla è più umiliante dell’essere giudicati. Lo si accetta con fatica, e non sempre, dai genitori, da chi ci vive accanto, dagli amici, dai colleghi più stimati. Di essere giudicati dai figli già non lo si accetta più, tantomeno da chiunque altro. Una soperchieria è una soperchieria, va al di là della nostra volontà, ma essere giudicati significa sottomettere sé a una saggezza e a un’autorità superiori che ci dicano che cosa abbiamo fatto di giusto e che cosa di sbagliato, poiché il nostro giudizio non è stato sufficiente. Non accetteremmo mai di essere giudicati da un estraneo, non gliene riconosceremmo il diritto, a meno che l’estraneo non sia un giudice, il quale, per patto sociale, cioè per sfuggire alla giustizia privata, che è di per sé ingiustizia, non ha solo il diritto ma anche il dovere di giudicare e di punire. Una mostruosità. Ma è l’unico modo di scampare a mostruosità peggiori.
Poco meno di due mesi fa, un magistrato di Milano è stato sorpreso in un festino omosessuale con un costume da volpe a due code. La polizia aveva fatto irruzione sospettando − sospetto fondato − che oltre allo spaccio di carni e lussurie se ne tenesse uno di stupefacenti. Il magistrato, estraneo alle implicazioni psicotrope, ha ottenuto dalla polizia l’anonimato. Come dispongo del mio corpo, ha detto, sono esclusivamente fatti miei. E ha ragione. Il segreto resiste da quasi due mesi e nonostante la morbosa curiosità di alcuni colleghi suoi del palazzo di giustizia e di alcuni colleghi nostri dell’informazione, il nome del magistrato dalle notti fiammeggianti è rimasto coperto. Toccasse a me, oltretutto, mi lascerei giudicare serenamente da un giudice che sappia distinguere il vizio e il peccato, sempre che siano tali, dal reato. Ma rimane una domanda scontata: un esercizio così illuminato di libertinismo sarebbe stato applicato a un politico? Oppure noi tutti ne sapremmo da subito nome e cognome, e inclinazioni al dettaglio?
In un passaggio struggente del Film rosso, capolavoro di Krzysztof Kies´lowski, il giudice in pensione Jean-Louis Trintignant ricorda il suo primo processo: mandò assolto un imputato della cui colpevolezza si convinse qualche giorno dopo, riflettendoci sopra. L’imputato poi si sposò, ebbe figli e condusse una vita irreprensibile. Trintignant si tormenta non all’idea di avere assolto un colpevole, ma di averne condannati tanti altri che avrebbero potuto giudicarsi da sé e correggersi, e salvarsi. Colpevoli ai quali lui, infliggendo una pena legale, ha rovinato la vita: la giustizia non è mai giustizia, la si chiama così per irrinunciabile convenzione. Io potevo uccidere come hanno ucciso loro, rubare come hanno rubato loro, mentire come loro, dice Trintignant, e li ho condannati perché non ero nella loro pelle, ero nella mia.
Il magistrato di Milano si è assolto non tanto perché frequentare festini gay vestiti da volpi sono, scusate la franchezza, letteralmente cazzi privati, ma perché per una volta, sicuramente quella volta, si è messo nella pelle del colpevole, che eccezionalmente era la pelle sua.