Finalmente Battisti è su Spotify
MATTIA FELTRI
Seduto in quel caffè io non pensavo a te, poi ho visto la notizia sul giornale. Da qualche ora, dal primo minuto del 29 settembre (2019), le canzoni di Lucio Battisti erano finalmente a disposizione sulle piattaforme online di internet: Spotify e Apple Music, essenzialmente. Ho ripensato a tutti quei viaggi, quando mia moglie e io abbiamo collegato la nostra playlist all’auto e abbiamo ascoltato Lucio Dalla e i Massive Attack, i Pink Floyd e i Negramaro, Ivano Fossati e i Radiohead (i più grandi degli ultimi trent’anni, secondo me), e abbiamo cantato a squarciagola, e alla gola un piccolo nodo: non potevamo cantare che ne sai tu di un campo di grano / poesia di un amore profano e io e te / perché io e te / qualcuno ha scelto forse per noi?
I nostri figli, accampati nei sedili dietro, sono passati oltre la Pimpa e Rovazzi e Ariana Grande, e hanno scoperto i Queen e i Clash, e hanno realizzato che fra loro e noi non sono intervenuti salti evolutivi, siamo figli dello stesso ceppo umano e persino della stessa civiltà, e gli era possibile amare la stessa musica amata da noi, come noi abbiamo amato quella dei nostri padri mettendo sul piatto i vinili ricoverati sullo scaffale più remoto della libreria: noi avevamo trovato Tutti morimmo a stento di Fabrizio De André e Il mio canto libero di Lucio Battisti e ogni prospettiva era cambiata. Battisti, soprattutto, si era ingoiato ogni ritornello di manierismo, sin dall’inizio aveva accettato e rilanciato, accettato e rilanciato, aveva continuamente rinnovato se stesso spingendo la musica italiana un passo più in là, e Mogol era servito a desacralizzare tanto genio con le parole della quotidianità, l’insalata, le banane, il panino all’osteria, surgelati rincarati, sulla strada le buche più dure, e poi le donne, in qualsiasi declinazione, la donna stilnovista, la donna puttana, fedele, fedifraga, che trema nel guardare un uomo, e quella che improvvisamente gli mostra il seno. Un catalogo impareggiabile precluso ai nostri viaggi, ai nostri figli, per fissazioni degli eredi a noi incomprensibili e infine risolte per via legale, e dunque tutto di nuovo fra le nostre mani, da riversare nelle nostre playlist e da imporre come ulteriore rivincita ai nostri ragazzi.
Mogol ha giustamente esultato, col tradizionale autoincensamento, siccome – racconta – Battisti gli disse di aver poi scelto i testi «nonsense» di Pasquale Panella poiché i suoi, quelli di Mogol, erano impareggiabili. Purtroppo le vie legali non sono ancora sufficienti perché quegli ultimi cinque album, firmati Panella-Battisti, siano scaricabili, così che forse Mogol potrebbe riascoltarli e capire che non c’è nulla di nonsense, quella è la definizione disastrosamente pigra, sono testi invece sublimi, ancora più immersi nel quotidiano, così negli abissi del quotidiano da risalire verso l’infinito. E la verità è che di colpo le parole e la musica non hanno alcun rapporto, nemmeno si sfiorano: Panella può finalmente sfuggire alle regole del pop, accettate con ironia e autoironia del «trottolino amoroso e du-du da-da-da», arrivare fino alle estreme conseguenze della sua epica minimalista, e allo stesso modo Battisti, svincolato dalle esigenze di mercato del cantar leggero, della schitarrata in spiaggia, arriva fino alle estreme conseguenze dei suoi spartiti, che si allungano, si fanno complessi, mostruosamente belli. Ed è a quel punto che si scopre il patto tacito di parole e musica: a ogni ascolto si scopre un pertugio nuovo, delle une e dell’altra. E il sogno si rinnova in eterno.