Il signore della radio
Nessuno, almeno a sentire Lorenzo Suraci che sulle canzoni ci ha costruito un impero. Merito dello spirito (e della faccia) da combattente e della memoria di certe fatiche per arrivare a fine mese
Guai a chiamarlo «presidente»: «Per carità, c’è già Mattarella: lasciamo il titolo a lui». E tantomeno gli va a genio «Dottore»: «Ho lasciato l’università per fare l’impresario delle orchestre da ballo. Lorenzo, è più che sufficiente». Col suo naso da pugile e il sorriso aperto, Lorenzo Suraci è il fondatore di RTL 102.5, la prima radio privata italiana con otto milioni di ascoltatori giornalieri, l’inventore della radiovisione e dello show-evento RTL Power Hits Estate all’Arena di Verona. La «sua» radio il prossimo 23 e 24 novembre sarà media partner di Vanity Stories, il festival di incontri e di racconti di Vanity Fair. E tra decine di personaggi che parleranno della loro vita, un posto in prima fila lo merita la sua.
Come s’è procurato quel profilo da lottatore?
«Una faccenda da scemi. Vivevo a Vibo Marina e, giocando, ho pestato il muso sul cemento. La cosa strana è che mio fratello minore ce l’ha uguale, e idem mio figlio: è diventato un tratto genetico. Quando mi sono dovuto operare per una deviazione del setto nasale, ho chiesto al chirurgo di non ritoccarmelo: la mia faccia è questa qui».
Che educazione ha ricevuto?
«Militare. I miei erano direttori alle poste, in Calabria: al venti del mese, scattava l’allarme e si centellinavano i soldi. Ricordo che il cinema dell’oratorio costava centocinquanta lire, e mio padre me ne dava solo cento. Poi è arrivato il Sessantotto e mi sono diplomato al liceo scientifico col “trentasei” politico: un giorno andavo a scuola, gli altri cinque a giocare a flipper».
Vi siete trasferiti a Bergamo per problemi di lavoro?
«No, per farmi studiare Ingegneria. Dopo otto mesi ho mollato e i miei m’hanno cacciato di casa. Quindi sono andato a stare da mio zio, direttore dell’Inps, che come secondo lavoro faceva l’impresario di orchestre e mi son messo a lavorare con lui. Era stupendo, frequentavo le discoteche e potevo fumare: piazzavo le bande mentre i miei fratelli facevano uno il barman e l’altro il deejay. Curavo i Perdio, che avevano fatto il primo disco con Bennato. E poi i Terza Classe, dove suonava Pasotti, il papà dell’attore. Contemporaneamente vendevo biancheria intima e enciclopedie di cucina. Solo che di dancing al Nord ce n’erano pochi, allora ho preso la mia Cinquecento e sono tornato a Catanzaro, tutto in una tirata, arrivando con la testata dell’auto fusa. Alla fine, ci sono rimasto cinque anni».
Quale fu la sua Woodstock?
«Quando piazzai gli Uriah Heep in un locale di Pontirolo Nuovo: il Vigna. C’erano millecinquecento persone ammassate come sardine: indimenticabile. Tornavo sempre a notte fonda, e mio padre era convinto facessi il pappone o il delinquente. Quando ha capito che il mio era un mestiere vero, m’ha costretto a comprare un appartamento a Bergamo, con le cambiali, per capire cosa fosse la vita. Per ripagarle l’ho dato in affitto e non ci ho abitato mai».
Da impresario, s’è fatto sfuggire qualche grande nome?
«A un certo punto decisi di aprire una discoteca, nel nulla, in un cinema abbandonato di Arcene: Il Capriccio. Io stavo alla porta e mio zio era addetto ai cessi perché era piccoletto e riusciva a intrufolarsi per controllare che non girassero spinelli. Diego Capponi, per cui avevo venduto biancheria, aveva aperto anche un’etichetta discografica: la Kappon music. E per vie traverse era vicino a Eros Ramazzotti, che era agli inizi e frequentava il locale. Speravo mi desse in mano l’organizzazione del suo tour, ma lui preferì Maurizio Salvatori, che ora è il presidente della Trident. Mi sentii tradito».
Come è accaduto coi Modà, che ha scoperto e lanciato.
«Con l’etichetta Ultrasuoni, di cui sono socio insieme a Radio Italia e RDS. Li abbiamo miracolati e loro ci hanno mollato con una mail: ci son rimasto male. Dico: “Lunga vita ai Modà” ma mi pare che i loro ultimi lavori non siano adatti a un trend di crescita. Avanti di questo passo, avranno delle delusioni».
Ma è vero che ha comprato RTL per copiare un altro locale storico come lo Studio Zeta?
Ho mollato Ingegneria e ho iniziato a lavorare nelle discoteche, vendere biancheria intima e pure enciclopedie
«Sì, loro avevano una radio e ne volevo una anche io, per promuovere il locale. Poi è arrivata la legge Mammì e ho capito che potevamo diventare emittente nazionale: ho spostato la mia antenna a milleduecento metri sul livello del mare, sul Monte Cava, e piano piano ho acquisito tutte le frequenze 102.5, comprese quelle dei preti, che piazzavano le antenne sui campanili delle chiese. Il resto è storia».
Video Killed the Radio Star è un brano del 1979. Ma in realtà la radio è sopravvissuta. Oggi c’è qualcosa che la preoccupa?
«La concorrenza con RadioMediaset, che grazie alla legge Gasparri può vendere pubblicità aggregando gli ascolti delle tv con emittenti come Subasio e Virgin. Per risposta abbiamo creato RadioFreccia e Radio Z, che allargano il nostro pubblico più giovane. Poi ci sono i nuovi media come Tunein.com, che si ispirano ai nostri programmi ignorandoci completamente. Quello che hanno detto da Spotify poi, e cioè che la radio scomparirà, mi ha irritato profondamente. Noi siamo in diretta ventiquattr’ore su ventiquattro e raccontiamo storie: RTL non morirà mai».
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