Vanity Fair (Italy)

ESHKOL NEVO

Johannesbu­rg

- di ESHKOL NEVO GEOGRAFIA DELLE EMOZIONI —

Quello stanzino non mi esce dalla testa.

Sono passati nove anni da quando sono stato a Johannesbu­rg, e mi compare ancora nei sogni.

Non esiste che non mi vieni a trovare, mi ha scritto. Ma certo, ho risposto.

Mando qualcuno a prenderti all’aeroporto, ha proposto. Non c’è bisogno, ho rifiutato. Ci pensa il festival a mandarmi a prendere.

Controlla che la macchina sia davvero quella del festival, ha scritto. La settimana scorsa qui è successa una storiaccia. Dei neri hanno sgozzato un turista. E di sera non uscire dall’albergo. È pericoloso. Quand’è il tuo concerto? Domenica? Vieni da noi a pranzo? Dayna ne sarebbe felice.

Era il cantante della nostra band al liceo. Ci chiamavamo I partigiani. Suonavamo in serate per gruppi giovani e avevamo anche parecchi fan. O meglio, parecchie. Soprattutt­o lui. Pensavamo di incidere un album, ma poi è arrivato il servizio militare e la faccenda è sfumata. Dayna l’ha incontrata accompagna­ndo un viaggio di giovani ebrei arrivati dal Sudafrica per scoprire Israele. Un anno più tardi si sono trasferiti a Johannesbu­rg e lui ha cominciato a lavorare con il padre di lei. Nei diamanti. Oppure nella sicurezza. Non mi era chiaro cosa facesse esattament­e. Ma da Facebook si vedeva che guadagnava a palate. E che non aveva intenzione di tornare.

La sua villa era circondata da una recinzione elettrica. E all’ingresso c’era una guardiola piantonata.

Ti deve sembrare strano, eh? Ha detto.

Ho annuito.

In questa città svaligiano una casa in media ogni due ore, ha spiegato. E in metà dei casi il furto finisce con un assassinio. Ha digitato un codice d’ingresso e una pesante porta blindata si è aperta davanti a noi.

Dayna, in tacchi alti, mi ha portato a visitare la casa. Tre piani. Otto camere da letto. Home cinema. Una biblioteca gigantesca, con un intero scaffale dedicato a tutte le biografie di Nelson Mandela. Lei lo adorava, naturalmen­te. Un uomo ammirevole. Immagina che se non fosse per lui questa cosa terribile, l’apartheid, non sarebbe finita.

Poi ci siamo seduti a mangiare. Intorno a noi sfaccendav­a senza sosta una donna di colore. Posava piatti. Portava pietanze dalla cucina. Sfregava macchie. Ho aspettato che me la presentass­ero e, vedendo che non succedeva, le ho teso la mano e ho detto, grazie. Lei si è voltata verso Dayna per chiedere il permesso, poi mi ha stretto la mano ed è subito filata in cucina.

Johanna ci è di grandissim­o aiuto con le faccende di casa, ha detto Dayna.

Ti deve sembrare strano, eh? È intervenut­o il mio amico. Ho annuito.

Qui è normale. Mi ha spiegato.

E Dayna ha aggiunto, per noi Johanna è una della famiglia. Un mese fa suo fratello si è cacciato in un guaio nella sua township – sono le zone povere dove vivono i neri – e da quel giorno lo ospitiamo qui.

Alla fine del pranzo mi sono alzato per sparecchia­re il mio piatto. Dayna mi ha posato la mano sul braccio e ha detto, non ce n’è bisogno. Ma ho insistito.

E così è successo che passando ho visto la stanza.

Era attaccata alla cucina. Grande come una lavanderia. Per qualche ragione, la porta era socchiusa. Il fratello di Johanna era steso su uno dei due materassi appiccicat­i. Sopra e intorno incombevan­o oggetti, abiti. Detersivi. Una radiolina.

Che figli di puttana, un brivido mi ha attraversa­to la schiena, tre piani, otto camere da letto, e li fanno dormire in una cuccia?

Sono tornato nel salone e mi sono scusato, dovevo andare. Ma il concerto è solo stasera alle dieci, ha protestato il mio amico.

C’è da fare il soundcheck, ho mentito.

Il soundcheck è importante. Che storia, che fra tutti noi proprio tu alla fine sei diventato musicista, ha detto sorridendo. Rock, per giunta. Allora, oggi spaccherai una chitarra sul palco?

Oggi? Di sicuro, ho risposto. Senza sorridere.

Sono passati nove anni da quando sono stato a Johannesbu­rg e quello stanzino mi compare ancora nei sogni.

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