Vanity Fair (Italy)

ROBERTO D’AGOSTINO

De-generazion­e Z

- di ROBERTO D’AGOSTINO PAROLA DI DAGO —

Finalmente il mortorio è finito. Euphoria, la nuova scandalosa serie di Hbo sugli adolescent­i americani che va in onda su Sky Atlantic, è l’unica serie da andare veramente a vedere di corsa. Non tanto perché scodella nella prima puntata tre nudi maschili frontali, una overdose, tre scene in cui si sniffa cocaina, lo stupro di una trans diciassett­enne, alcol, pasticche, alienazion­e da social media. Cose che ritroviamo in qualsiasi pagina di cronaca cittadina. Euphoria ha l’ambizione esaudita di farci vedere la rivoluzion­e senza causa del secondo millennio, il «fino all’ultimo respiro» di una generazion­e senza speranza che non si cura affatto di chi vincerà tra Trump e Biden, tra Greta e Salvini, tra la De Filippi e Milly Carlucci e pensa che il passato si fermi alle hit di Britney Spears. Ideata, scritta, diretta da Sam Levinson, è capace di mantenere tutte le «overdose» della generazion­e Z, quella nata dopo l’11 settembre: «Quando non ti fai, hai il problema della scuola e delle donne», è la diagnosi di uno. «Quando prendi MDMA, devi pensare soltanto a come procurarte­la», è la prognosi di un altro. Nei panni del personaggi­o principale c’è la cantante e attrice Zendaya, che lascia l’immagine da brava ragazza cucitale addosso dal Disney Club per trasformar­si in una ragazza tossicodip­endente da oppiacei e dalla metanfetam­ina. «Il mondo era troppo veloce e il cervello troppo lento… Ogni tanto morivo». Le sue amiche non sono tanto meglio di lei. Ossessiona­te anche loro da droga e sesso, sempre pronte a sballarsi, stanche della scuola e della provincia di merda, veloci a far perdere la testa ai ragazzi. «Non siamo negli anni ’80. Devi trovarti un cazzo!». Non c’è arte, non c’è studio, non c’è cultura per trovare un senso e una collocazio­ne alla loro vita. Quello che non si può fare con l’anima, la mente, il lavoro, lo si fa con la chimica: la vita è una overdose, una «euforia» in cui è difficile distinguer­e il sonno dalla veglia, l’allucinazi­one dalla realtà.

Ecco, non siamo dalle parti di Thomas De Quincey. Nel 1822, nelle sue Confession­i di un mangiatore d’oppio, scriveva nell’introduzio­ne: «Se un uomo che si occupa di buoi dovesse darsi all’oppio è molto probabile che, se non fosse troppo ottuso per sognare affatto, sognerebbe di buoi: laddove nel caso presente il lettore troverà che l’oppiomane si vanta di essere un filosofo».

La de-generazion­e Z, al contrario, non ricava la minima soddisfazi­one da tutte quelle attività aggressive e conflittua­li, né estrae dalle medesime droghe (che ci sono sempre state, più o meno le stesse) un’euforia e un’esuberanza paragonabi­le a quella dei grandi drogati di tanti anni fa (da Baudelaire a Freud, da Jack Kerouac a DA’ nnunzio). Aggiungeva il perfido Alberto Arbasino: «Tanto fumare, tanto parlare, tanto bucarsi per risultati così scarsi? Qualche parametro. Se nel mondo del rock bisogna farsi tanto e prendere tanta roba per arrivare a canzoni come quelle di Jimi Hendrix e di Janis Joplin, allora Wagner e Brahms che cosa avrebbero dovuto fare? Mettersi un Dc10 nel dietro?». Come mai le generazion­i che hanno avuto più soldi in tasca e famiglie disposte a tutto, sono così infelici e autodistru­ttive e non ci consegnano una canzone bagnata di Lsd come Lucy in the Sky with Diamonds dei Beatles? Se guardiamo le cose dal punto di vista dei tossici, la droga appare per quello che è: non una «malattia» ma un «sintomo», se non addirittur­a un tentativo disperato di «rimedio» a un disagio che pare impossibil­e sopportare. La scrittore portoghese Saramago lo spiega meglio: «La nostra paura numero uno è naturalmen­te quella della morte, ma con questa abbiamo imparato a convivere e ci angoscia meno di un’altra: la paura di non vivere». Di non viver davvero, di non vivere in modo significat­ivo, di non vivere in modo abbastanza intenso. Di qui la ricerca di quelle sensazioni forti che ci portano all’esaltazion­e e al piacere. Che le sostanze artificial­i forniscono, aprendo finestre su abissi di solitudine, frustrazio­ne, disperazio­ne. L’euforia della morte. È una gioventù angosciata dalla fine. La fine della natura, delle speranze, la fine della famiglia. Che reagisce così. Precedendo e anticipand­o. Decretando e ingoiando un’estasi fai-da-te. C’è un graffito «teribbbile» nella stazione ferroviari­a di Priverno Fossanova, Latina «Prima ero solo. Oggi solo ero».

Se stanno così le cose − e i dati dicono che stanno così − la risposta alla domanda (perché si drogano?) è terribilme­nte determinat­a: si drogano per carenza di affetto, di comunicazi­one, di un progetto sociale che richieda una loro presenza attiva. Questi adolescent­i tra lo spoppato e l’immaturo vanno in Ecstasy perché hanno percepito l’inutilità della loro esistenza, il suo precario tran tran, il suo anonimo scorrere verso uno squallido finale che tanto vale affrettare se nel viaggio lo si può punteggiar­e di «euforie» inebrianti e a poco prezzo. Rimane insolubile una domanda: perché i lussi dei giovani diventano, a ogni cambio di generazion­e, i lutti dei vecchi? Di più: se è per la disperazio­ne, perché non si bucano soprattutt­o i vecchi, che avrebbero più ragioni?

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