AMBRA ANGIOLINI
Il lusso della felicità
Ci sono tre porte. Sulla prima c’è scritto tranquillo. Sulla seconda pauroso. Sulla terza paurosissimo. «La terza. Io scelgo a occhi chiusi la terza. Oggi la spalanco e mi dico: sarà quel che sarà». Oggi, appunto: perché fino a ieri Ambra Angiolini non era certo una da grandi aspettative. «Ero pervasa dal pessimismo cosmico. E se gli altri alzavano l’asticella, io l’abbassavo. Il problema è che nella mia vita è successo tutto troppo in fretta». A 14 in televisione. A 16 la scomunica della Chiesa per una frase di Non è la Rai. Poi i dischi. Il teatro. La radio. Di nuovo la televisione. E ancora il cinema. Con tutti i riconoscimenti del caso. Un Telegatto. Il David di Donatello. Il premio Persefone. «Ma anche se arrivi a cento, niente, ancora non basta. Perché tutti ti vogliono a 110. Allora io, per paura, per non dover affrontare la voragine della delusione, scendevo fino a cinque perché nella vita devi toccare il fondo per risalire. E io il fondo l’ho toccato. Quindi oggi sa che c’è di nuovo? Mi sveglio al mattino e sento l’ottimismo che mi bussa alla porta. Allora mi chiedo: sto diventando stupida? Perché solo persone stupide possono concedersi il lusso della felicità».
Sta dicendo che bisogna essere stupidi?
«Sto dicendo che prima mi svegliavo la mattina e m’incazzavo col mondo perché le cose non andavano bene. Oggi, invece, ho adottato un’altra strategia: faccio qualcosa di bello senza un motivo preciso. Mando fiori a mia madre. Realizzo un piccolo desiderio di una mia amica. Ha presente il bambino protagonista di Up? Ecco, faccio come lui: aiuto tutti gli anziani che incontro per strada. Prima o poi, sono sicura, mi prenderò un bastone in testa, lo so. Però sa che soddisfazione, sul treno, alzare la valigia di una signora anziana e guardare con aria di sfida tutti gli uomini intorno che non l’hanno fatto?».
Senso di onnipotenza?
«No, senso di fastidio. Fastidio verso chi ti dice sempre “sono stanco”. Ma stanco di che? Sono tutti stanchi oggi. Stanchi per il motivo sbagliato. Le faccio un esempio. L’altro giorno era il Plastic Free Friday e tutti a manifestare giustamente per il surriscaldamento globale. Io scendo nel cortile del mio palazzo e trovo immondizia ovunque. Mi lamento, faccio le mie stories, le mie dirette su Instagram. E poi mi metto a pulire. Ecco, quella è una stanchezza giusta. Qualcosa che ti apre al mondo. L’altra invece ti chiude. E io voglio aprirmi. E quando mia figlia mi dice “voglio cambiare il mondo”, io non le rido in faccia perché non voglio crescere una figlia stanca».
E com’è cresciuta sua figlia?
«Peggio di me. O forse dovrei dire meglio di me, non so. È un’attivista. Sono orgogliosa di lei perché viene vista con quell’alone di chi non viene cercato per andare a bere gli aperitivi in centro. È scomoda perché la sua urgenza è trovare delle risposte. Si fa un mucchio di domande. E le domande sono un segno di vita. Anche se quelli che se ne fanno troppe sono poi quelli che vanno per primi a casa. È successo anche a me. Ma io sono sempre stata quella con i sogni più strani. E con i momenti più scuri di una notte buia».
Mi parli dei sogni.
«Quando ero bambina, in quinta elementare, avevo un diario titolato Cenerentola in cui scrivevo che la cosa che volevo fare da grande era la mamma. A 14 anni, quando ovviamente non capitò, mi sembrava strano. A 18, dopo Non è la Rai, non essere madre mi fece scoprire per la prima volta il volto della depressione. Il dottore mi disse di partire per il Brasile. Così presi l’aereo e andai a Rio per iniziare la mia esperienza come volontaria con un medico dell’Ospedale San Camillo di Roma che operava i bambini. Fu bellissimo e travolgente. Ma la vera sensazione di sazietà, proprio come quella descritta dai cartoni animati, fu quando rimasi incinta di mia figlia. Era come se fossi stata affamata d’amore per tutta la vita e improvvisamente ero sazia. Fu l’inizio di un lungo cammino che mi fece capire cosa vuol dire essere madre».
E cosa vuol dire?
«Guardare alle spalle dei tuoi figli invece di coprire il loro orizzonte. Essere un porto sicuro. La madre me la immagino come una persona che se ti giri, lei è lì. Esattamente come è stata la mia. Mi ha insegnato che la dote migliore per una madre è il coraggio. Perché ci vuole coraggio a prendersi certe responsabilità. A fare dieci passi indietro. A sapere che forse i tuoi figli si faranno male, si andranno a schiantare. Che è necessario che succeda. Prima di essere un’amica, prima di essere moderna, per me una madre deve essere coraggiosa».
Torniamo, invece, ai momenti bui.
«Inverno 2011. Forse 2012. Stavo facendo un lavoro importante e iniziai a sentire che avevo paura di tutto. Di fare le scale, di prendere l’ascensore. Poi l’aereo e il treno. Infine, quando anche il bagno è diventato un luogo inquietante, mi sono detta: il raggio della vita si sta stringendo troppo. Le paure stavano dominando la mia vita. E quando succede così è l’inizio del baratro. Stavo girando La Squadra e dissi stop. Non fui capita e mi diedero della bugiarda. Motivo per cui non ho lavorato in Rai per più di 8 anni».
Si arrabbiò?
Ho toccato il fondo e poi sono risalita quando ho capito che dovevo ricominciare da capo. Per farlo ci vuole coraggio, forse la dote più importante che mi ha trasmesso mia madre
«No, perché quello è un mondo di scuse e non è facile scegliere tra una scusa e una verità. Sono stata sei mesi a riorganizzare tutto. Poi una mattina è crollato tutto».
(Gli occhi di Ambra diventano lucidi e fissano il soffitto. Il racconto si interrompe e il suo sguardo sembra fissare una voragine invisibile).
Riesce a raccontarcelo?
«Mattina. Una mattina qualunque. Mia figlia Jolanda si sveglia, deve andare all’asilo. Il sole entra nella cameretta, l’armadio è colorato, bellissimo. Mi chiede: mamma mi aiuti a vestirmi? Io realizzo che è la cosa più difficile da fare. Vado nell’altra stanza, mi metto a piangere per un’ora. Mi dico: se una cosa così semplice è complicata allora non va affatto bene. Col tempo ho capito che la mia sensibilità, la cosa più preziosa che ho è anche la più pericolosa. È come se mi avessero regalato una Vespa. E poi ci avessero messo un baule che io non avevo chiesto. E quando quel baule è vuoto, allora tutto non ha senso. A quel vuoto, a quel precipizio ora non arrivo più. Non è lui a spaventare me. Ma io lui. Quella mattina ho capito che dovevo ricominciare da capo».
Come ha fatto?
«Qualche ora dopo, un mio amico sceneggiatore a cui racconto la cosa mi manda un messaggio. “È un’opportunità, cavalcala”, mi scrive. Aveva ragione. Ho iniziato a svezzarmi, come fossi una bambina. E sono tornata dal mio mitico medico di base, il dottor Cademartori».
Che le ha detto?
«Di agire. Di provare a prendermi cura degli altri. Così a Brescia mi capita di conoscere un angelo, Nicoletta, la psicologa dell’Ospedale Civile. Mi dice che devo studiare per diventare volontaria tra le corsie di medicina di oncologia infantile. Io sono contenta, perché ci sono libri da leggere, esami da sostenere. Una nuova cosa da imparare. Mi ritrovo in un’aula magna con un’umanità varia, vecchi e giovani, facce tra Pasolini e Fellini. La prima qualità di un volontario è non giudicare e provare a relazionarsi a chi è diverso da te. Mi capita un gruppo assurdo, facciamo un test insieme, proviamo ad andare d’accordo, lo passiamo. La signora anziana
del gruppo viene destinata alla mensa dell’ospedale. L’autista di pullman ai trasporti dei genitori dei bambini. A me tocca il lavoro di corsa. “Ma non coi bambini, tu vai bene per gli adolescenti”, ordina Elisabetta. Al primo incontro, faccio quello che so fare, una lezione di teatro. Dico: ora camminate come se ci fosse il sole. Ora come se facesse freddissimo. Ora con una gamba sola. Tutti partecipano tranne due ragazze. Me la prendo con una e le dico “perché non partecipi?”. Lei mi risponde: non ho più una gamba, non riesco a camminare».
Un bel passo falso, me lo conceda…
«Volevo morire, sparire, dileguarmi. Invece arriva Nicoletta e mi dice “Brava, li hai conquistati!”. In effetti sembravo un elfo impazzito che provava in tutti i modi a rimediare. Loro l’avevano capito. Avevano capito che ero imperfetta come loro. Come la loro malattia. Come la vita. Ma la cosa più bella doveva ancora succedere».
Cosa doveva ancora succedere?
«C’era un’altra ragazza, in un angolo, che mi guardava con sfida. Si chiama Silvia. È respingente. Sbruffoncella. Antipatica. Mi colpisce subito perché è come uno specchio: è uguale a me. Maschera il suo oceanico bisogno d’amore sotto un’aria da dura. Impariamo a conoscerci. M’innamoro di lei. Prima diventiamo sorelle, poi divento sua zia. Il percorso è lungo e duro però dopo alcuni mesi guarisce. Appena esce dall’ospedale, si ammala sua madre. Cinque mesi e non c’è più. Ma Silvia è una leonessa. Oggi è parte della mia vita. Non potrei vivere senza Silvia. Mi ha salvato da me stessa».
Torniamo alla sua carriera. Tivù, cinema, radio, teatro. Cosa l’ha segnata di più?
«Il teatro. Perché non è moderno. Come non sono moderna io. Sta in piedi da sempre e non si capisce come sia possibile. Non ha sovvenzioni e le paghe sono veramente da volontariato. Io l’ho scelto come tecnica di ridimensionamento. Il teatro è stato il mio architetto, ha disegnato la mia casa. È stato un corso di umiltà perché il pubblico può essere crudele, benevolo, maldisposto. L’ho iniziato come la tivù: per istinto. Non vengo dalla scuola e vado di pancia. Durante la prima esperienza, i Menecmi di Plauto, ricordo che mentre recitavo dovevo anche spostare le quinte. Nelle piazze, dove mettevamo in scena la commedia, la gente mangiava e a volte ruttava pure. Ma cosa vuoi che sia un rutto per una che ha rischiato una scomunica a 16 anni?».
Non ha paura del giudizio degli spettatori?
«Ho la mia tecnica per non averne. Ogni sera scelgo lo spettatore del giorno. Lo fisso dal palcoscenico. A volte è un uomo, a volte una donna. Durante la recita era uno che dormiva: l’ho fatto svegliare e alla fine si è commosso. Un’altra volta era uno che doveva andare al cesso, si capiva dalla faccia. Gli ho sorriso, lui si è alzato e ha finalmente guadagnato la via per il bagno. Ma la volta migliore è stata quella signora che al termine di un monologo drammatico recito “interessante no?”, e lei risponde dalla prima fila “eh, capirai!!!”. Viene giù il teatro dalle risate».
E lei che ha fatto?
«L’ho guardata negli occhi e le ho detto: be’ in effetti… Nel teatro, come nella vita, devi essere sempre pronto a cambiare il finale. La mia vita è nata a Non è la Rai, un live. Il Teatro l’ha esaltata ai massimi livelli».
A proposito di Non è la Rai. Cosa ha imparato da Gianni Boncompagni?
«Boncompagni e l’auricolare mi hanno insegnato l’empatia. Non so se Dio lo stia benedicendo o se ha creato un Paradiso a parte tutto per lui. Gianni era il tuo migliore amico perché riusciva ad avere 16 anni e dieci secondi dopo 150. Era infantile e faceva i capricci e poi improvvisamente diventava l’uomo più saggio del mondo. Non mi diceva di leggere un libro. Mi faceva venire voglia di leggerlo. È stato un adolescente fino alla fine della sua vita. È stato un genio fino alla fine, infatti è morto la notte di Pasqua, praticamente il giorno della Resurrezione. Dio, in cui Gianni credeva tantissimo, l’ha preso in giro alla fine solo come avrebbe fatto un Mel Brooks che decide di girare un film sulla vita di Boncompagni. Le sua lezione più grande? Quando mi insegnò come si accetta o no una proposta. “Facile, Ambra. Qual è il tuo personaggio preferito?”. E io: “Madonna”. “Ecco allora pensa se Madonna accetterebbe quella proposta. Se sì, allora è tua”. Certo, peccato che poi quando gli altri capivano che pensavo di essere Madonna, ecco, dicevano questa è matta».
Altri grandi maestri?
«Baudo. Prendi la creatività di Gianni, i suoi capricci. Pippo Baudo li sa racchiudere in una scaletta. Mai visto nessuno capace di rendere partitura la musica dello spettacolo come fa lui. Gianni lo seguivi di pancia. Pippo ti consegnava un mezzo da guidare, un’auto da competizione. E che dire di Celentano? Con Adriano non ho fatto nessun vero programma ma ne ho scritti dieci. È stato come fare un viaggio a Lourdes senza arrivare a Lourdes. E senza aver bisogno del miracolo. Perché il miracolo era il viaggio in sé, il suo cambiare le idee, il suo stravolgere tutto».
Un altro grande artista importante per lei è stato il regista Ferzan Özpetek.
«Le cose andarono più meno così. Ero nei bagni degli studi di Raitre. Registravo un programma in diretta dalle 9 alle
13 tutti i giorni e parlavo di politica, pensioni e problemi del lavoro. Insomma sono chiusa nel bagno e sto facendo il test di gravidanza. Da fuori urlano “Ambra cinque minuti e sei in diretta”. Io sono in lacrime, chiamo Francesco (Renga) e lui mi dice “ma perché piangi, non sei felice?”. Insomma finisce che quel giorno mi chiama il casting director di Özpetek, “guarda che Ferzan è un mese che ti cerca”, dice. È vero, era un mese che non rispondevo al cellulare per la solita paura che qualcosa cambiasse. Che qualcosa di bello potesse sconvolgere tutto. Il giorno dopo vedo il regista a pranzo, mi dice che mi vuole nel prossimo film. Io gli dico che mi piacerebbe, ma sono incinta. “Bene, mi ha sempre portato fortuna avere qualcuno incinta sul set. Ti aspetteremo”. Io torno a casa, dico a Francesco “figurati se questo si ricorda di me tra nove mesi”. Poi, quando nasce mio figlio a maggio, Studio Aperto dà la notizia e qualche minuto dopo arriva il messaggio di Ferzan. “Ora sei pronta, quando arrivi?”».
Tra poco la vedremo nel nuovo film Brave ragazze di Michela Andreozzi.
«Con Michela è stato come chiudere un cerchio. Lavorava con noi a Non è la Rai. Ha aperto più lettere della De Filippi. Ci proteggeva, teneva lontano i malintenzionati. Sapeva cantare ed era sempre quella con le cose più fighe, la sorella più grande, quella più avanti. È stata una bellissima collaborazione femminile. Con lei e con tutto il resto del cast».
E di Massimiliano Allegri, il suo nuovo compagno, cosa ci dice?
«Tutto quello che le ho raccontato, quello che ho vissuto è stato rilegato da un tipografo d’eccezione. Quel tipografo d’eccezione è Massimiliano. La cosa che mi salva dai momenti dolorosi è la sensazione di poter giocare con lui anche da adulta. E la cura che ha nei confronti della mia esistenza, di quella dei miei figli, della mia ex storia. Non c’è un solo passaggio della mia vita che Massimiliano non rispetti. Rido quando leggo cosa scrivono di lui i giornali. Mi sono innamorata di lui perché come me è un tipo fuori moda. Mi sono accorta subito che mi piaceva perché siamo due sbagli. E due errori come noi, se si incontrano davvero, generano una cosa che sarebbe veramente stupido non affrontare. Quella cosa è la ripartenza dell’amore. Guardi, io ce l’avevo il mio modello di famiglia e purtroppo è finito. Succede così nella vita, no? Le cose finiscono. Però io non chiudo mai le porte a chiave. Non posso dimenticarmi delle persone che ho amato. Si cambia, si sbaglia, ma bisogna sempre lasciare la possibilità di tornare. Soprattutto agli amori e agli amici. Devi andare al di là delle cose che succedono. La vita, le persone che ho amato mi hanno insegnato le cose più profonde. Funziona come i cipressi che invece di mettere le radici in orizzontale, vanno a fondo in verticale. Non occupano spazio vitale ma scavano in profondità. Chi ha messo radici così a fondo vuol dire che le ha passate davvero tutte. Ha mangiato la terra, l’ha persino inalata. E tu sai che ti puoi fidare di loro per sempre».
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