CINEMA Panama Papers: la più grande truffa
Il nuovo film di Soderbergh Panama Papers spiega la truffa più spericolata degli ultimi dieci anni. Con divertimento (che fa paura) e un po’ di empatia
La truffa più spericolata degli ultimi dieci anni, spiegata bene. Gary Oldman e Antonio Banderas, bastardi e irresistibili, guardano dritto nella macchina da presa per spiegarci come si fotte mezzo mondo alla luce del sole. Letteralmente: quello dei Tropici. È esattamente come il baratto di una volta, solo che adesso le mucche sono azioni, obbligazioni, titoli bancari che restano invisibili. Panama Papers di Steven Soderbergh, disponibile su Netflix dal 18 ottobre, è la risposta ancora più brillante, quasi un gioco tra amici, alla Grande scommessa di Adam McKay (2015). Là c’erano i mutui subprime, che oggi ci sembrano un po’ meno incomprensibili, qua i soldi pubblici e privati esportati nei paradisi fiscali e scoperchiati tre anni fa dal fascicolo bollente che dà il titolo al film.
I narratori Oldman e Banderas sono, rispettivamente, Jürgen Mossack e Ramón Fonseca, titolari dell’omonimo studio legale che occultò la lavanderia monetaria (The Laundromat è il titolo originale del film) operata da oltre 200 mila società internazionali. Se nel premiatissimo Traffic l’autore si lanciava con piglio scientifico in un narco-giro del mondo, per parlare di cattiva finanza globale si lascia invece andare al divertimento: per questo lo scenario che mostra mette ancora più spavento. Il veicolo per trovare un po’ di empatia è Meryl Streep, in un doppio ruolo (più un terzo da non svelare) e con tour de force finale da vera gigiona. In un piano sequenza che pare un comizio, ci spiega che le male amministrazioni non moriranno mai. E che l’America deve riprendersi la sua libertà. Capito, Donald?