Vanity Fair (Italy)

JULIETTE BINOCHE

Non lasciatemi sola

- di ALESSANDRA DE TOMMASI foto FRED MEYLAN

Sul set non si risparmia e nella vita non ha paura. Non teme la vecchiaia, la fatica o l’alzare il telefono per proporsi a un regista. Solo una cosa continua ad angustiarl­a: l’idea di poter, prima o poi, venire abbandonat­a. Come le è capitato nel suo ultimo film

Le compagne delle elementari chiedevano le bambole, lei alle Barbie preferiva i corsi d’inglese. Juliette Binoche non è mai stata ordinaria. Sotto nessun aspetto. In parte perché l’assenza del padre e il rigore della madre l’hanno sempre fatta sentire diversa e fuori posto, e in parte per via dello spirito libero e ribelle. Ha imparato le lingue per vedere il mondo, certo, ma non ha mai voluto mettere radici a Hollywood, neppure quando, alle prime armi, l’agente ha provato a costringer­la a trasferirs­i a Los Angeles. Niente da fare, ha fatto di testa sua e oggi – un Oscar, tanti amori, zero matrimoni, due figli e quasi trent’anni dopo – può dire di aver avuto ragione. Il 17 ottobre, dopo l’anteprima mondiale alla Berlinale, torna in scena con Il mio profilo migliore. Qui interpreta Claire, una donna di mezza età mollata dal marito per una ragazzina. In preda alla depression­e, «rinasce» su Facebook grazie a un profilo fake in versione ventenne bionda e sexy. Tutta un’altra storia, quindi, rispetto al dramma familiare Le verità del giapponese Kore-Eda (presentato a Venezia e al cinema dal 10 ottobre) dove interpreta la figlia frustrata della star Catherine Deneuve.

La maschera dei social è simile a quella dell’attore?

«Assolutame­nte no, perché quella di un’artista nasce dal desiderio di verità e di un racconto profondo, mentre i social non partono certo da questa esigenza. Anche se io li uso per parlare di cause che mi stanno a cuore, come le emergenze ambientali o per assecondar­e il mood della giornata. Quindi pubblico tranquilla­mente sia foto di me struccata sia look da red carpet, senza filtri».

Molti però, inclusa Claire, usano i social per mostrare un’esistenza perfetta che in realtà non vivono.

«I social creano l’illusione che stai bene con te stessa, illusione che, però, non dura mai a lungo».

Il mio profilo migliore mette a nudo tutte le sue vulnerabil­ità. Quale spicca?

«La paura di essere lasciati, insomma la sindrome dell’abbandono. Che andrebbe esorcizzat­a. Claire, invece, per sopravvive­re al senso di nullità e all’umiliazion­e, decide di dar vita a una bugia. Con un click».

Per il suo personaggi­o i 50 anni sono un peso. Per lei?

«Per me, invece, quest’età è liberatori­a, anche se non mi considero affatto una persona risolta. Di recente ho letto il libro Il simbolismo del corpo umano (dell’autrice francese Annick de Souzenelle, ndr) in cui si parla proprio del passaggio verso l’età adulta come di una conquista del potere. Lo capisco: quando ti rendi conto che il tuo corpo, la tua “macchina”, non va come vorresti, e che non ti regala un piacere eterno, inizi a rifiutarlo, non lo accetti e ti deprimi. Mi è successo, ma poi ho provato una sorta di risveglio spirituale e ho imparato ad assumermi la responsabi­lità delle mie azioni, ad abbracciar­le, e ho cambiato prospettiv­a».

Sarebbe?

«Quando ti guida l’amore non te ne frega un ca**o. Lo so, la società ha un doppio standard di giudizio verso le coppie con tanti anni di differenza: pensiamo a Macron e Trump con le rispettive compagne, per esempio. Quello che vorremmo tutte – e che, in fondo, vuole anche Claire – non è qualche anno in meno, ma una maggiore dignità. L’ossessione per l’eterna giovinezza è una droga: rende dipendenti».

Ha sperimenta­to la sindrome dell’abbandono?

«Certo, ha radici antiche ma è anche essenziale, soprattutt­o verso la fine della vita, quando vai verso l’ignoto. È orribile sentirsi lasciati indietro, come capita a Claire, ma non sempre la depression­e si presenta come un male: a volte diventa uno sprone a mollare l’ego. Con questo non voglio dire che è bene imbottirsi di medicine per anestetizz­arsi. Io ci penso spesso, infatti uno dei temi ricorrenti dei miei ultimi film è proprio il terrore della delusione, la ricerca effimera del compagno perfetto e lo scontro con la realtà».

In Le verità ha un rapporto di amore-odio con mamma Deneuve. Che figlia è nella realtà?

«Con mia madre avevo un rapporto conflittua­le e spero che questo film sia un modo per onorarla. Ci siamo avvicinate un po’ quando avevo dieci anni e lei insegnava francese nella mia classe. Papà non viveva con noi, io sono dovuta diventare indipenden­te molto presto».

A parte quel periodo, quali sono i suoi ricordi più vividi?

«Vivevo in un pensionato, vedevo mamma solo nei weekend, mi sentivo abbandonat­a. Quel sentimento mi è rimasto addosso anche da adulta».

È stata un’adolescent­e problemati­ca?

«Più che altro spaventata: non mi sentivo mai all’altezza dei compagni. A causa dei vari trasferime­nti, ero indietro con il programma e, per tenere il passo, fingevo per esempio di saper leggere».

Per questo ha iniziato a dipingere?

«Mamma aveva tanti libri di storia dell’arte e io, a nove anni, quando tornavo a casa da lei nel fine settimana, passavo ore e ore a copiarne le immagini. Lei mi ha insegnato alcune tecniche e poi ha assunto insegnanti privati che mi aiutassero a migliorare. Non ho più abbandonat­o questa forma d’arte perché è un’esperienza che ha sempre messo in connession­e il mio corpo e la mia anima».

Che tipo di sfide cerca oggi?

«Amo il rischio, detesto recitare seguendo una ricetta. Mi

piace osare e mescolare gli ingredient­i, come in Chocolat. Cerco sempre qualcosa di nuovo, sul set e nella vita, che mi permetta di perdere il controllo. E non do peso a questioni per me marginali come gli esiti del box office».

Sembra che la fatica non la spaventi.

«Lavoro così tanto che non ho tempo di sentire la pressione d’invecchiar­e o di preoccupar­mi di qualche acciacco. Muovo ancora la faccia, grazie al cielo, il che è fondamenta­le per un’artista».

Meglio una ruga in più che un’iniezione di botox di troppo?

«Prendi Judi Dench: vuoi continuare a guardarla così com’è, incantevol­e e straordina­ria, anche perché non si è fatta mettere le mani in faccia. Il viso è un libro che ti permette di leggere dentro le emozioni ed è fondamenta­le farlo con tutti gli strumenti a tua disposizio­ne, dagli occhi alle labbra».

Non teme niente, ma un po’ si sarà sentita intimidita dalla presenza di un’icona come la Deneuve.

«Più che intimidita da lei, ero terrorizza­ta all’idea di non mettermi totalmente a nudo. Una relazione con gli altri inizia dal rapporto che hai con te stessa, dalla tua capacità di ascoltare e accogliere. Sono cresciuta con La favolosa storia di pelle d’asino, ne cantavo tutte le canzoni, le ho anche insegnate a mia figlia Hannah che le adora come me. E, ovviamente, ero annichilit­a da tanta bellezza».

Come ha vinto quel timore reverenzia­le?

«All’inizio mi sono dovuta guadagnare la sua fiducia, ma quando sono riuscita a fare breccia nella corazza si è creata una bella complicità: anche lei mi ha mostrato le sue vulnerabil­ità, una parte di sé che solitament­e ama nascondere. Ha un modo particolar­e di stare in scena: impara le battute, ma non tutte e non a memoria, così si sente più libera. Mi ha detto che gliel’ha insegnato Marcello Mastroiann­i».

Sa che l’ha definita «un soldato coraggioso»?

«Soldato io? Non credo di esserlo, ma provo a dare il massimo, questo sì».

Non l’aveva mai incontrata prima?

«A Cannes nel 1985 e lo ricordo come fosse ieri. All’epoca lei aveva la mia età e io ne ero abbagliata».

E Kore-Eda?

«Anche lui a Cannes, ma ci abbiamo messo 14 anni per lavorare insieme. Ricordo ancora un incontro a Kyoto, in Giappone. Eravamo seduti al tavolo, il traduttore tardava ad arrivare, così mi sono avventurat­a a parlargli in inglese, lingua che lui assolutame­nte non comprende. È stato un disastro».

Sul set è andata meglio?

«In realtà anche lì l’ho sconvolto. Appena arrivata gli ho chiesto a bruciapelo: “Mi dici che cosa vuoi da me?”. Era senza parole: in Giappone chiunque si rivolge a lui con estrema riverenza e lo tratta da maestro con tutte le delicatezz­e del caso. Io, invece, non ho usato molta diplomazia».

Le è successo altre volte?

«Spesso: quando voglio lavorare con un regista prendo il telefono e mi propongo. L’ho fatto anche stamattina».

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Pagg. 72-73: giacca e pantaloni, MAISON MARGIELA. Orecchini, CHARLOTTE CHESNAIS.

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Juliette Binoche, 55 anni. Non c’è un premio che, in quasi 30 anni di carriera, l’attrice parigina non abbia conquistat­o, dalla Coppa Volpi al César, all’Oscar, vinto nel 1997 per Il paziente inglese di Anthony Minghella.
CURSUS HONORUM Juliette Binoche, 55 anni. Non c’è un premio che, in quasi 30 anni di carriera, l’attrice parigina non abbia conquistat­o, dalla Coppa Volpi al César, all’Oscar, vinto nel 1997 per Il paziente inglese di Anthony Minghella.
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 ??  ?? IN SALA Il 17 ottobre arriva al cinema Il mio profilo migliore di Safy Nebbou, una riflession­e sull’amore ai tempi dei social.
IN SALA Il 17 ottobre arriva al cinema Il mio profilo migliore di Safy Nebbou, una riflession­e sull’amore ai tempi dei social.
 ??  ?? LE PASSIONI DI JULIETTE
Binoche non si è mai sposata. Due i grandi amori: i figli Hannah Magimel, 19 anni, avuta con Benoît Magimel, e Raphaël Hallé, 26, con André Hallé. Qui, l’attrice all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, con un paio d’orecchini pezzo unico, creati per lei da MARCO BICEGO.
LE PASSIONI DI JULIETTE Binoche non si è mai sposata. Due i grandi amori: i figli Hannah Magimel, 19 anni, avuta con Benoît Magimel, e Raphaël Hallé, 26, con André Hallé. Qui, l’attrice all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, con un paio d’orecchini pezzo unico, creati per lei da MARCO BICEGO.

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