LAURA CARMICHAEL
Lady Edith alla riscossa
Da baby-sitter e receptionist a protagonista di Downton Abbey: la serie (ora film) ha cambiato la vita di Laura Carmichael. Proprio come il suo personaggio, la figlia bruttina e zitella, che alla fine è diventata la più emancipata delle sorelle Crawley e si è anche sposata
Non parla con l’accento posh e, giura, non ha mai posseduto un cavallo in vita sua. A parte il fatto di essere inglese e di avere anche lei due sorelle, una più grande e l’altra più giovane, Laura Carmichael ha davvero poco in comune con il suo personaggio in Downton Abbey.
«Parecchi si aspettano di incontrare Lady Edith e quando mi presento in jeans non posso fare a meno di notare un certo disappunto nei loro sguardi».
La «povera Edith», la figlia predestinata a rimanere zitella e a prendersi cura dei genitori, è stata il personaggio che l’ha fatta conoscere, il suo primo vero ruolo, e il pubblico che, per sei stagioni, ha sospirato e sofferto con lei, fa ancora fatica a distinguere tra ruolo e attrice.
Chi ha visto la serie fino alla fine, però, sa anche che il suo personaggio si è spinto molto lontano dalle premesse, diventando la vera eroina della storia. E altro succederà nel film, che arriva nei cinema il 24 ottobre, una sorta di reunion perché il cast è lo stesso «e anche il castello della famiglia Crawley che si vede nella scena iniziale. Ci siamo commossi persino noi quando l’abbiamo vista al cinema per la prima volta».
Era da parecchio tempo che si parlava di questo film. Quando ha capito che si sarebbe fatto davvero?
«Julian (Fellowes, il creatore e produttore, ndr) ne aveva cominciato a parlare fino dall’ultima stagione. C’è voluto parecchio tempo anche perché non è stato facile trovare un momento in cui ognuno di noi era libero da altri impegni. Ma appena abbiamo letto la sceneggiatura non vedevamo l’ora di cominciare».
In questi anni siete rimasti in contatto?
«Non abbiamo mai smesso di sentirci, siamo diventati amici. Il successo, incredibile e inaspettato che la serie ha ottenuto in tutto il mondo, ha creato un legame molto stretto fra noi attori. E poi di solito si tratta di lavorare insieme per un paio di mesi, mentre noi abbiamo condiviso il set per sei mesi all’anno, sei anni di fila. Ritrovarci è stato un po’ come partecipare a una riunione di famiglia».
Si tratta di un vero e proprio sequel, giusto?
«La storia riparte dal 1927, un anno e mezzo da dove eravamo rimasti».
Oggi diremmo che Lady Edith è la sorella sfigata. Priva
dello charme della primogenita Mary, interpretata da Michelle Dockery, e senza la spregiudicatezza della piccolina di casa, Sybil, l’attrice Jessica Brown Findlay.
«Ma io l’ho amata fin dal primo momento. A volte si può comportare in modo sgradevole con le sorelle, ma lo fa perché è una sorta di emarginata all’interno della famiglia. Voglio dire, deve affrontare un sacco di difficoltà fin dall’inizio. E ogni volta che sembra a un passo dal trovare la felicità e che tu, da casa, pensi, ecco, finalmente è arrivato il suo momento, succede sempre qualcosa che rovina tutto».
È anche la più bruttina delle tre.
«La cosa buffa è che non m’ero resa conto fino alla messa in onda della prima puntata. Lo scoprii leggendo le recensioni sui giornali in cui Edith veniva descritta come la sorella racchia. All’inizio sono rimasta sorpresa».
Le ha dato anche un po’ fastidio?
«Ho avuto bisogno di digerire l’informazione. Ma non dici di no a una parte perché non sei quella carina. Anche se sono consapevole di quanto conti la percezione dell’aspetto fisico per chi fa il mio lavoro».
Sapeva fin dall’inizio che Edith sarebbe diventata una giornalista, la più emancipata delle tre?
«No. Dopo la prima stagione la sua vita avrebbe potuto evolversi in tantissimi modi diversi».
Il fatto che fosse lei a interpretarla ha cambiato il destino di Edith?
«In maniera anche del tutto inconsapevole, il modo in cui entri in relazione con il tuo personaggio traspare. Julian percepiva il mio rapporto con lei e con la storia. Penso che trovasse divertente il fatto che il pubblico amava Edith proprio perché era meno fortunata delle sorelle. Anche se sapeva che a un certo punto le avrebbe regalato un happy ending, ha voluto aspettare fino all’ultimo».
Che effetto le fa pensare che neppure un secolo fa l’unica realizzazione di una donna fosse il matrimonio?
«I film in costume sono interessanti, io li amo molto. Trovo che ci facciano riflettere sul presente proprio perché sono ambientati in un’epoca diversa. Oggi la vita di una donna non dipende più da chi si sposa, dal fatto di trovare un marito oppure no. È cambiato tutto, e meno male, aggiungo. Non rimpiango niente di quel periodo. E, in generale, non sono una persona nostalgica. Se proprio devo trovare un aspetto positivo nel passato è l’assenza dei social network. Anche se sono utili per chi fa il mio lavoro, mi sforzo di usarli con grande cautela».
In che modo Downton Abbey le ha cambiato la vita?
«In ogni modo possibile. In questo mestiere il caso gioca un ruolo enorme. La mia prima fortuna è stata riuscire a studiare in una buona scuola di teatro, la seconda che la casting director si ricordasse di me dai tempi in cui ero, appunto, una studentessa. Avevano già scelto Michelle Dockery e Jessica Brown Findlay, ma stavano facendo fatica a trovare la faccia giusta per la terza sorella. Fu lei a propormi per il provino di Downton Abbey. Pensavo fosse un piccolo ruolo, fu una sorpresa quando mi diedero la sceneggiatura. Fino a quel momento mi ero arrangiata facendo l’addetta alla reception, la baby-sitter e così via. Anche se oggi, a ripensarci, sono grata di quegli anni passati a cercare di guadagnarmi da vivere a Londra passando da un lavoretto all’altro. Dopo il teatro, la considero la mia seconda scuola».
Che cosa si è potuta concedere grazie al successo?
«Vado a fare shopping molto più di prima».
La moda è una sua passione?
«Fa un po’ parte di questo mestiere: fare l’attore vuol dire indossare abiti e costumi diversi a seconda del personaggio, trasformarsi anche dal punto di vista esteriore. Ma Downton Abbey aveva un grosso seguito nell’ambiente della moda, e questo mi ha permesso di cominciare a frequentare le sfilate, di conoscere stilisti come Christopher Kane, che è diventato un amico. Il momento più surreale è stato quando ci hanno invitato al Met Gala a New York. C’erano Mick Jagger, Bruno Mars, Marc Jacobs. Non ci potevo credere. Beyoncé mi fece persino i complimenti per la serie».
Altri momenti «non ci posso credere»?
«Suonerà pure sdolcinato ma, per me, è stata una sorpresa enorme vedere come sul set tutti si prendessero cura gli uni degli altri. E mi ha colpito la generosità degli attori con più esperienza nei confronti di chi, come me, era all’inizio».
Com’è stato lavorare con la leggendaria Maggie Smith?
«È una donna divertentissima. Sul set non la smetteva di raccontare storie buffe. Sono cresciuta guardando i suoi film, la seguivo in tv. Da ragazzina, dopo aver visto Camera con vista andai subito in biblioteca a prendere il romanzo da cui era tratto. Vederla lavorare per tutti quegli anni mi ha influenzato tantissimo».
Non teme che un’esperienza del genere possa averla un po’ viziata? Che il mondo che l’aspetta non sarà altrettanto amichevole?
«Probabilmente. Ma sono consapevole del fatto che sia stata un’esperienza unica nel suo genere. Lo siamo tutti».