ESHKOL NEVO
Intervista a se stesso
All’epoca degli innamoramenti senza senso, delle notti in sacco a pelo e delle leggi naturali dell’età, a suggerirgli che avrebbe trovato il segreto per fissare la vita nel gioco della sottrazione era stato un suo amico. Nel tempo, Eshkol Nevo ha imparato anche il dono della sintesi colorando di invenzione tutte le esistenze che non avrebbe potuto interpretare. Ne ha disegnato i confini e allargato lo spazio, riempiendo i vuoti con amori, viaggi, rumori, silenzi e ricordi fino a trascinare il sogno nella realtà. «Smontate il sentimento in immagini», intima ai suoi studenti nei seminari creativi, e nell’insegnare a scrivere, nella metamorfosi da allievo inconsapevole in maestro, ha trovato il modo per evadere dal già detto, per ingannare le proprie sentinelle interiori, per fondare una Repubblica dell’inatteso che pagina dopo pagina ci restituisce un ritratto fedele di quello che siamo, delle nostre miserie, dei nostri umori, dei nostri odori, delle nostre debolezze. Nella romanzante meraviglia della contraddizione, addentrandosi ben oltre le grate di un qualunque confessionale, lo scrittore si è messo a nudo. Per farlo, nel solco di una filologia rothiana in cui ogni tassello è utile alla costruzione di sé purché non sia macchiato dalla vergogna, Eshkol ha scelto di dialogare con Nevo. Domande semplici, risposte complesse. Quesiti innocenti, repliche definitive. Il libro si intitola L’ultima intervista ed è una lunga lettera, quasi un testamento, in cui a un uomo «che non dimentica niente» si chiede di rammentare tutto. Le stazioni della radio cambiate all’improvviso, lo stolido replicarsi dell’esercizio del potere nella burocratica
cornice di un campo paramilitare, gli orecchini di una giornalista colombiana, gli errori, gli abbagli, le strade troppo strette in cui addentrarsi, la paura da superare prima di sorridere per lo scampato pericolo. Paolo Sorrentino sostiene che nella vita il pareggio non esista e a Nevo, grande appassionato delle cause perse, del calcio di retroguardia israeliano e delle linee invisibili all’occhio che agli dei del pallone fanno venire sempre una buona idea, speculare non interessa. Detesta fotografare e ancor di più odia essere fotografato, ma fotografa senza macchina al collo tutti i giorni. La pioggia che scende su un parabrezza, un reparto oncologico, un rimpianto indicibile, un vecchio errore pagato caro. Se il cuore si indurisce, Nevo lo ammorbidisce con la verità. La verità dello scrittore, quasi un ossimoro per uno che promette di dirla in ogni pagina smentendosi volutamente in quella successiva. «Ci poniamo delle mete, ne diventiamo schiavi», scrive ne La simmetria dei desideri. «Siamo talmente impegnati a realizzarle, che non ci rendiamo conto che nel frattempo sono cambiate». Nevo ha fatto i conti con l’ipotesi che nulla rimanga identico all’istante che lo precede e una volta accettato lo stato dell’arte, ne ha dipinta una tutta sua. In fondo è uno scrittore. Un uomo che mette in fila pensieri per trovare un punto di incontro con chi lo legge nella fantasia. «Nel silenzio», giura, «si trovano molte cose». L’amore che supera qualunque ideologia fino a diventare ideologia. Per rianimarlo, in un libro in cui ogni riga lo rievoca con la scusa di un verso di Stevie Wonder, di una sigaretta, di una telefonata o di una carezza, Nevo gli si affida come si affiderebbero i figli a un parente specchiato. La consanguineità con il sentimento lascia sul terreno sofferenza e ilarità, dolore e ironia, rimpianti e sbagli da cui è impossibile divorziare. L’unico matrimonio possibile, adombra, è quello con il coraggio di essere chi si vuole essere. Ed è lì, nelle
pieghe, nei non detti, nelle buche in cui nascondersi per non «sapere cosa succede lì fuori» che Nevo ha trovato lo spazio, lo studio, una stanza in cui chiudersi per concentrarsi che inseguiva – già non più ragazzo, ma non ancora uomo – quando ogni distrazione casalinga, dal pianto dei figli al frastuono di un frullatore, sembrava allontanarlo dal suo destino. Ora che si è compiuto e i suoi volumi vengono stampati in lingua straniera, Nevo sa che non c’è passato che non accenda una luce sul presente. «La distanza tra una tenue speranza e nessuna speranza è infinita», scrive e anche se Nevo sostiene di aver voluto piangere molte volte, ma di averlo fatto per l’ultima volta ai tempi del liceo, il suo libro commuove proprio perché non ha nessuna intenzione di farlo. Tutto è analitico, ma intanto, riga dopo riga, i cani zampettano sulla spiaggia e abbaiano alle onde con la stessa ripetitività con la quale ogni giorno noi tutti abbaiamo all’esistenza. Capita che qualcuno ci ascolti, capita che qualcuno ci lanci una corda, un osso o un gesto di affetto e capita anche – il più delle volte – che si sia costretti a tornare al punto di partenza, con la coda tra le gambe. Nei frammenti di discorso amoroso che Nevo dissemina tra le pagine l’unico mistero che si può svelare è se «i nostri peccati siano davvero tali». Non c’è movente, non c’è assassinio, non c’è lutto se non quello che pretende (e si illude) di suturare la ferita con l’oblio. Niente si cancella, ipotizza Nevo, perché la memoria sa come farsi strada, aggirare gli ostacoli, farsi beffe delle nostre momentanee rimozioni. Accade così anche quando si scrive un libro: «Dopo che è stato pubblicato mi dispiace non averlo cancellato», rivela Eshkol a Nevo. «A volte, mentre leggo un brano del mio libro davanti a una platea, lo correggo. Elimino una parola qui, una frase là». È l’unico potere dello scrittore. Un potere quasi divino. Nella vita, non si può. E non basta chiudere la porta dietro di sé per sentirsi nei pressi di dio.
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