ADELINA VON FÜRSTENBERG
Salviamo il pianeta
«Non pensiamo certo di cambiare il mondo, però…». Adelina von Fürstenberg parla con il piglio spiccio di chi la questione se l’è posta un milione di volte, e altrettante si è risposta che no, l’arte – la passione di tutta la sua vita – non è in grado di risolvere i problemi, ma può far pensare «che di questi tempi non è poco».
Con questo non tanto modesto proposito ha prodotto, con la sua Ong Art for the World (associata con il Dipartimento dell’Informazione Pubblica delle Nazioni Unite), Interdependence, un film – omnibus sarebbe il suo nome in gergo cinematografico – composto da 11 short movies sul tema dell’ambiente nel quale 10 registi e un’artista provenienti dai cinque continenti sono stati chiamati a raccontare la rottura del legame più antico e importante di tutti: quello dell’uomo con la natura.
Il film (che da novembre comincerà il suo lungo viaggio che parte dai festival per arrivare, attraverso una distribuzione capillare, al maggior numero di persone) è un racconto polifonico di temi e stili. Per l’Italia la voce scelta è quella di Silvio Soldini, che nel suo corto intitolato Olmo racconta il bellissimo rapporto tra un nonno e un nipote sul filo della memoria di un passato in cui le persone, anche in città, avevano un legame con la natura che li circondava. «Ogni regista parla di ciò che lo tocca più da vicino: Soldini di una Milano soffocata dal traffico, il regista indiano dell’aria irrespirabile di New Delhi, il cinese Leon Wang segue il volo desolato di un gabbiano su una sconfinata discarica, la regista svizzera, attraverso l’attrice Emily Beecham, dello scioglimento dei ghiacciai e quella brasiliana del rapporto indissolubile delle tribù amazzoniche con la loro terra. Sono storie piccole e comuni, ma che ci restituiscono una visione d’insieme preziosissima».
In due degli undici racconti il rapporto tra l’uomo e la natura è descritto attraverso la crisi di una coppia.
«È una metafora bella ed efficace. In un caso – il film indiano – la coppia (interpretata da attori molto famosi in India che si sono prestati gratuitamente al progetto) si ama, ma ha delle divergenze sulla necessità di lasciare o meno la città inquinatissima in cui vivono, nell’altro, la storia islandese, i silenzi tra un uomo e una donna sono lo specchio dell’incomunicabilità che si è creata tra noi e l’ambiente. La solitudine dei protagonisti mi sembra un tratto comune a tutti i film, a ogni latitudine: questo ci dice che, quando il mondo in cui viviamo diventa ostile, perdiamo i legami fondamentali. Diderot diceva che il nostro unico diritto naturale è di appartenere all’umanità. Ecco io penso che questa appartenenza si stia perdendo».
È questa l’interdipendenza del titolo?
«Nel 2012 ho curato un progetto artistico chiamato Food, lì ho compreso la grande connessione di tutto con tutto; interdipendenza era la parola in cui mi sono imbattuta più spesso occupandomi di quel lavoro. Ho capito che dove non c’è interdipendenza, non c’è armonia, in qualsiasi campo, anche quello personale e professionale. Mi risulta difficile, e mi dispiace, lavorare con persone che procedono per compartimenti stagni: ognuno fa il suo pezzo, senza comunicare».
Che ruolo ha l’arte nelle questioni sociali?
«L’arte è una presa di posizione. Non tocca i temi sensibili di una società, ma, con il suo sguardo trasversale, ci mette il dito sopra, li mostra».
Però l’arte non è cosa per tutti.
«L’articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dice che ognuno ha diritto di godere liberamente delle arti. L’arte dovrebbe essere per tutti, perché è curativa, ma negli ultimi tempi è diventata cara, un bene di lusso».
Quando è successo?
«Da quando la moda si è interessata all’arte. Gino De Dominicis diceva che l’artista è un creatore e non un creativo. Ora invece sono tutti creativi, e questo è un riflesso della moda e della pubblicità. Io appartengo a una generazione di curatori che vedeva l’arte nel suo insieme, non soltanto dei frammenti in vendita. Allora i collezionisti, se volevano acquistare un’opera, prima conoscevano l’artista, lo osservavano al lavoro: c’era della curiosità, e anche dell’umanità. Tutto questo si è deteriorato e l’arte è diventata un prodotto, per di più privato».
Però forse metter l’arte sotto un marchio di moda lo rende più attrattivo per chi, diversamente, non si avvicinerebbe.
«La Fondazione Prada è un posto straordinario, Miuccia ha una visione eccezionale e fa delle mostre che nessun altro potrebbe fare. Mi piace anche come lavora la Fondazione Trussardi. Ma sono realtà che lavorano in parallelo, non dialogano. Un tempo i direttori dei musei erano colleghi, anche amici. Ora ci sono le scuderie. È un peccato».
Lei è una collezionista?
«Non mi interessano i frammenti delle cose. Mi piace dire che non colleziono opere, ma mostre. Però l’arte occidentale, il sistema in cui è inserita, mi ha un po’ stancata. In altri posti – lA’ frica, il Sud America, l’India – succedono cose più interessanti che confido possano contaminare tutto il mondo».
In che modo?
«Nei tempi di crisi, quando si tagliano i finanziamenti alla cultura come ha fatto Bolsonaro in Brasile, bisogna aguzzare l’ingegno, e solo chi non si dispera, ma lavora ancora di più sulla creatività, sopravvive. Nella difficoltà generale, l’arte può rifiorire in maniera diffusa, come succede con la street art. Come sempre accade, è dalle crepe che passa la luce». ➺ Tempo di lettura: 8 minuti