FRANCESCO MELZI D’ERIL
Da Dolan alla Ferragni
Che cosa c’entra un nobile intellettuale, specializzato in film d’autore, con Chiara Ferragni? Sulla carta poco. Eppure Francesco Melzi d’Eril è il produttore del documentario-fenomeno del momento. Segni particolari: ama sfidare i pregiudizi (vedi anche alla voce: Luca Guadagnino)
Per chi vive a Milano, il nome di Francesco Melzi d’Eril richiama alla mente una famosissima via della città, zona corso Sempione, dedicata al vicepresidente della repubblica cisalpina con Napoleone. Un altro Francesco Melzi, qualche secolo prima, fu pupillo di Leonardo da Vinci. Oggi, anno 2019, seduto a un tavolino del bar Magenta, non distante dalla via che porta il suo stesso nome, c’è il discendente Francesco Melzi d’Eril, cinquant’anni, stessa nobile e potente famiglia milanese. Professione: produttore cinematografico, con un importante passato di buyer e distributore di film, specializzato nel cinema d’autore. Cinefilo accanito, Melzi non disdegna però la mondanità, anzi coltiva buone frequentazioni con celebrity hollywoodiane che ama ospitare, tra cene e passeggiate a cavallo, nella sua villa di campagna in Toscana. Tanto anomalo quanto rispettato, ha scelto di vivere lontano da Roma, la capitale del cinema italiano, e nell’ambiente è famoso per il fiuto. Ha portato in Italia, per esempio, Nymphomaniac di Lars von Trier, il primo film di Xavier Dolan ed è il produttore di Luca Guadagnino, suo grande amico.
Ma il motivo che oggi ci porta da lui è Chiara Ferragni. Che cosa c’entri un nobile milanese intellettuale con l’influencer più popolare del mondo nel campo della moda è difficile da dire. Eppure Melzi d’Eril è l’uomo che ha prodotto il documentario più chiacchierato delle ultime settimane: Chiara Ferragni - Unposted, diretto da Elisa Amoruso, presentato, seppur nella sezione Sconfini, tra mille sopraccigli alzati dei critici, all’ultima Mostra del Cinema di Venezia e con un box office da record di oltre un milione e seicentomila euro. È il film-evento – solo tre giorni nelle sale – più visto di sempre in Italia.
Si aspettava questo risultato?
«Onestamente? Sì. È stato un trionfo. Avevo scommesso che saremmo arrivati a una cifra molto vicina a quella che abbiamo raggiunto. Non mi stupisce: Chiara Ferragni è l’unica grande diva italiana di oggi».
L’unica?
«Sì. Non esistono attrici italiane che portino frotte di gente al cinema oggi come ha fatto lei. Non c’è nessuno, in Italia, che generi quel tipo di attenzione».
I critici non sono stati tutti benevoli. Sul Corriere della sera, Paolo Mereghetti ha scritto che il film ricorda certa propaganda nordcoreana.
«Mereghetti ha stroncato anche il film di Tarantino (C’era una volta a… Hollywood, ndr), quindi la prendo come una medaglia al petto. Certo, se vuoi mettere insieme Martin Eden (il film di Pietro Marcello in concorso a Venezia, ndr) con il documentario sulla Ferragni, dimostri di avere equivocato tutto. Rispetto il suo giudizio ma mi sembra una reazione di lesa maestà. Altri critici invece hanno scritto buone recensioni, per esempio l’Hollywood Reporter, uno dei giornali di cinema più importanti del mondo».
Altra critica al film: c’è poco di «unposted», c’è poco oltre a ciò che già sappiamo.
«Non sono d’accordo. Forse la prima parte è un po’ didascalica, ma serviva anche spiegare la sua storia, per chi non ne sapeva molto. La seconda parte la trovo bellissima, con i filmini di Chiara ragazzina. Di certo, la gente aveva voglia di questo racconto, lo dimostra l’attenzione che ha ricevuto il film, oltre che gli incassi».
Come si è trovato nel mondo di Chiara?
«Chiara è una ragazza semplice, simpatica, appassionata del
suo lavoro, intelligente. Per me che ho sempre fatto film molto diversi, anche per apprezzamento del pubblico, è stato divertente vivere tutta questa attenzione. Ora tornerò a fare film diversi. Il mio compito è fare progetti che smuovano qualcosa e penso di esserci riuscito anche con questo».
Fedez, il marito di Chiara, in una story di Instagram, si è scagliato contro i critici dicendo che non contano più niente.
«Ahimè è vero. Per anni ho distribuito film con recensioni meravigliose che hanno avuto incassi ridicoli. La parola dei critici conta poco, i giornali li leggono poche persone, soprattutto anziane. Giulia De Lellis è la scrittrice numero uno in Italia, Chiara Ferragni è la diva di oggi. Puoi chiamarla la morte del talento, in ogni caso è importante interrogarsi sui motivi».
Però Melzi d’Eril e Chiara Ferragni resta un accostamento inusuale. Come hanno reagito gli amici?
Alza gli occhi al cielo. «Dicono: ma dai, ma cosa fai? Oddio, per favore! Basta con questa Ferragni!».
E lei?
«Devo sempre giustificarmi. Ma vede, io ho prodotto quasi tutti i film di Luca Guadagnino da Io sono l’amore. Non è la stessa cosa, ma all’epoca Guadagnino era considerato un paria del cinema, dopo il film di Melissa P. (del 2005, ndr). Non il suo lavoro migliore, ma comunque dignitosissimo, lo avevano chiamato e lui lo aveva fatto. In questo Paese restano le stimmate e insomma lui era quello di Melissa P.».
Perché lei invece gli ha dato fiducia?
«Sapevo che Guadagnino aveva dentro altro, che era un regista e un intellettuale importante. E lo ha dimostrato».
Lei quali stimmate ha?
«Non ne ho, per me è diverso, io lavoro dietro le quinte. Sono quello del cinema d’autore. Adesso con Lorenzo Mieli sto producendo la serie di Guadagnino per Sky e Hbo (We Are Who We Are, ndr). Oggi fare film bellissimi che vedono in 20 mila persone non mi stimola più. Mi diverto a seguire progetti con un pubblico più ampio. Oppure piccoli film con un’ambizione internazionale, genere Cafarnao, titolo iraniano che in Cina ha incassato 52 milioni di dollari». «Argomento complesso. Abbiamo ottimi autori: Guadagnino, Garrone, Sorrentino, Costanzo, Muzi, Rohrwacher. Il problema, tra gli altri, è che si fanno troppi film rispetto al potenziale del pubblico italiano. Se produci 120 film all’anno, forse 70 sono di troppo».
Che cosa non funziona?
«Mi occupo di cinema d’autore, ma ho grande rispetto per il cinema commerciale. Solo, non credo che tutti i film di Boldi, De Sica e Vanzina fossero indispensabili. Il film di Checco Zalone, che adoro, è invece indispensabile».
Possibile che il cinema italiano aspetti tutto l’anno Zalone per riempire le casse?
«Ce ne fossero altri 4 o 5 di Checco Zalone. Ripeto: si producono troppi film. Ma ad alcune grandi case di produzione conviene produrre tanto, per far funzionare la macchina».
Lei invece vive lontano da Roma.
«Sono felicemente tornato a Milano».
Perché?
«Milano è una città dinamica e divertente. A Roma, che non mi stimola molto, vado solo per gli appuntamenti. Ognuno vive il mestiere come vuole: c’è gente che vive tra il ministero e la Rai. Io quella roba lì non ce la faccio a farla».
Che cosa le riesce bene?
«Penso di saper riconoscere il talento. E ho uno sguardo internazionale, di sicuro, per via della mia storia: vengo dalla distribuzione, non dal set».
Lei è un’eccezione?
«Io sono un po’ un anarchico. Ho fatto il film sulla Ferragni e ne sono fiero, non mi diminuisce».
Ha fatto anche cose di cui si vergogna?
«Ho prodotto anche delle schifezze, sì. Per esempio Albakiara (film del 2008, ndr). A un certo punto ho mandato sul set Guadagnino, che è molto curioso, per farmi dire che cosa non andava: lui è tornato con un report dettagliatissimo. È stato un disastro».
La passione per il cinema com’è nata?
«A Venezia, dove mia madre aveva una casa e io, dall’età di 18 anni, andavo tutti gli anni al Festival. Ho studiato Giurisprudenza, poi sono andato in America a lavorare per una società di cinema. Al rientro ho cominciato alla Mikado. Era l’epoca d’oro della distribuzione indipendente, giravano tanti soldi, scovavo piccoli film nei festival minori e li vendevamo a Tele+: roba che oggi ti darebbero quattro ceffoni».
La sua famiglia era d’accordo con la scelta di lavorare nel cinema?
«Sì, mia madre ha un’agenzia di fotografi e mio padre si occupa di ippica e non mi hanno mai imposto di fare ciò che fanno loro».
Come si vive con un nome così importante?
«Con responsabilità. Mio padre mi ha sempre detto solo una cosa: ricordati del nome che porti, non è che devi diventare presidente della Repubblica, ma neanche finire arrestato».
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