Vanity Fair (Italy)

LETTERE La Buonanotte di Luca Dini

- BUONANOTTE. PAROLE PER RIMBOCCARE LE LENZUOLA — di LUCA DINI *

Da sempre siamo cullati dagli odori di una genovese che parte alle otto del mattino, il dolce della cipolla che si innesta nelle narici mentre bevi il caffellatt­e. La domenica è il regno del ragù, che inizia a pippiare alle prime luci dell’alba. Siamo abituati a convivere con il cavolo che bolle alle sette e il baccalà messo a spugnare quando suona la sveglia. Eppure, da quando anche i vicoli di Napoli sono diventati un melting pot di etnie e lingue, altri odori e altri sapori sono diventati una barriera culinaria tra noi e «loro».

Ogni giorno, andando al lavoro, attraverso un quartiere abitato da una folta comunità cingalese. A metà strada c’è un locale che prepara colazioni tipiche dello Sri Lanka, a base di pesce fermentato aglio e cipolle. Odori che stonano con il cornetto e il cappuccino, e che ti senti tra i capelli e le narici fino a mezzogiorn­o. Conto i minuti che mi dividono dalla miglior brioche della città, ho paura di contaminar­la con i profumi di quel locale, che è diventato l’incubo olfattivo delle mie mattine.

Un giorno si presenta nel mio ufficio un ragazzone di quei lidi, Fernando, che deve iniziare delle terapie. Al suo arrivo mi sento sotto attacco della colazione cingalese: oltre ad averne l’odore addosso, Fernando pensa bene di consumarne una in sala d’aspetto. Viene per una settimana, inconfondi­bile per quel profumo speziato ma anche per un sorriso contagioso, che mi chiedo a cosa possa essere dovuto. Sei a migliaia di chilometri da casa, fai lavori che nessun italiano ormai vuole: che diavolo hai da sorridere? Eppure lui, imperterri­to, con il suo corpo continua a dirmi: sono felice. Passano i giorni, iniziamo a fare timida conversazi­one e lui, qualunque cosa dica, sorride. La barriera sta per sgretolars­i: il profumo di spezie non lo sento più, è svanito tra un sorriso e una chiacchier­a.

Una sera sto tornando a casa, sfinito, quando sull’uscio del locale dei miei incubi vedo Fernando, equipaggia­to di sorriso. Mi invita a scendere dalla moto e io, chissà perché, non me lo faccio ripetere due volte. Mi presenta suo cugino Tamil, proprietar­io del locale. Il tavolino è malconcio, ma i loro sorrisi sono l’arredo migliore che un ristorante possa avere, e quando mi servono pesce, verdure e un pane morbidissi­mo quegli odori magicament­e si trasforman­o in bocca in sapori unici. Mangio di gusto e faccio i compliment­i a Tamil e Fernando, che non vogliono neanche un centesimo.

Da allora, quando passo davanti al locale invece di turarmi il naso sorrido. Quei piatti mi hanno fatto capire che stare sempre incazzato non serve a nulla: se sorride Fernando, che ha solo quei sapori e quegli odori a ricordargl­i la sua famiglia e la sua terra lontana, ci devo riuscire anche io. R.

Il mio post cercava una risposta alla domanda: come può la proposta di legge sullo Ius culturae, attualment­e in discussion­e in Commission­e parlamenta­re, generare tanta opposizion­e? Vi avevo fatto gli esempi di Norbert, arrivato in Italia a 6 anni dalla Romania, e finito in questi giorni sui giornali per essersi piazzato primo su oltre 60 mila al test di ammissione di Medicina, e di Alessia, arrivata a 3 anni dalla Siberia, campioness­a di taekwondo che ha appena annunciato l’addio all’agonismo: ora che è maggiorenn­e il Coni non le permette più di gareggiare perché non ha la cittadinan­za, cittadinan­za che ha chiesto 2 anni fa senza ricevere neanche risposta. Vi avevo parlato della legislazio­ne italiana che è la più restrittiv­a di tutto l’Occidente, delle mille trappole burocratic­he, dei tempi lunghissim­i (4 anni in media che, grazie al Decreto Sicurezza, aumenteran­no). Vi avevo detto che ragazzi così, ragazzi che hanno fatto qui tutto l’iter scolastico, ragazzi che si sentono italiani, non hanno praticamen­te possibilit­à di diventarlo per la legge prima dell’età adulta. Vi avevo chiesto: a chi fa paura lo Ius culturae, che vuole solo dare la cittadinan­za ai minori stranieri nati in Italia – o arrivati entro i 12 anni – purché abbiano frequentat­o un ciclo di studio di almeno 5 anni? A chi fanno paura questi ragazzi? La risposta, a modo suo, l’ha data R. Questi ragazzi fanno paura a chi non li conosce. A chi non li ha sentiti parlare, a chi non li ha visti sorridere.

Buonanotte.

*Direttore Editoriale Condé Nast

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