MATTIA FELTRI
La democrazia del globish
«Abbandoniamo le nostre lingue nazionali e lasciamo che siano invase non dall’inglese ma dal globish», dice con dolore, in una bella intervista al Giornale, il filosofo francese Alain Finkielkraut. Il globish – lo sappiamo tutti – è una lingua universale, un inglese semplificato, spesso scorretto, spesso ibridato (pensate all’uso che si fa di verbi come spoilerare o taggare), di poche parole e regole grammaticali blande con cui, via internet, si comunica in tutto il mondo. I nostri figli ne sono pervasi, lo parlano anche in casa, senza neanche rendersene conto, e Finkielkraut ne scorge un sintomo evidente di «impoverimento culturale», una malattia che lui chiama deculturazione, dove la distinzione fra cultura alta e bassa è abolita, tutto è culturale, cioè niente.
Chi si è imbattuto in questa pagina, probabilmente sa dell’amore incondizionato che proviamo per «Finkie», ed è quasi un sollievo essere per una volta in disaccordo con lui. Intanto bisognerebbe capire meglio la diagnosi di deculturazione, poiché solo sessanta, settant’anni fa avevamo un’élite ristretta e acculturata e un’enorme maggioranza semianalfabeta e in soggezione, oggi resiste un’élite ristretta e acculturata sotto assedio di un’enorme maggioranza che qualcosina ha studiato, soprattutto dispone dei mezzi tecnologici per far sentire la sua voce, e la fa sentire, e quanto a soggezione niente di niente: non è un bene, ma non lo era nemmeno prima. Però è una questione decisamente complicata, da non sbrigarsi in poche righe. È invece sul globish che Finkielkraut non è molto convincente.
La fortuna dell’Impero romano si basò su tre fondamenti: imposizione della moneta, della legge e della lingua (per il resto ognuno poteva vivere come credeva, anche quanto a devozione religiosa). Naturalmente le popolazioni galliche o germaniche o nordafricane assoggettate parlavano un latinorum, il globish del tempo, ma alla lunga il latino divenne la lingua di tutti, la prima lingua globale, per cui ancora nel Medioevo i dotti dell’intera Europa disponevano di una lingua comune. Poi, col dissolversi dell’Impero, e col passare dei secoli, il latino si imbastardì, si diffuse il volgare, cioè una lingua semplificata, spesso scorretta, di poche parole e regole grammaticali blande (sparirono le declinazioni – rosa, rosae ecc. – per esempio). Fu uno scandalo. Dove andremo a finire, dicevano i dotti di cui sopra, anche perché il volgare non era solo dozzinale, era pure diverso di regione in regione, in pratica nascevano i dialetti, e ci si capiva sempre meno. Poi in Italia arrivarono San Francesco, Dante Alighieri, la Scuola siciliana, i dotti che lasciarono il latino perché declinante e abbracciarono il volgare perché più diffuso, e ricominciò a strutturarsi una lingua comune: l’italiano.
La lingua è l’unico aspetto davvero democratico della nostra vita: nella lingua la maggioranza vince sempre, altrimenti parleremmo ancora il latino. Se i nostri figli dicono spoilerare, possiamo ripetergli alla nausea che si dice «svelare il finale» ma loro, fra di loro, continueranno a dire spoilerare. E continueranno a usare il globish perché il globish è la lingua di tutti, e con un italiano corretto si fanno intendere dai loro genitori, ma col globish si fanno intendere dai loro coetanei neozelandesi, sudafricani, argentini con cui si incrociano in chat. Sì, è una lingua semplificata, grezza, povera eccetera, ma è una lingua giovane. Evolverà di sicuro, chissà come, chissà in quanto tempo, si arricchirà, si complicherà, e chissà se anche il globish un giorno avrà un San Francesco e un Dante Alighieri. *editorialista de La Stampa.