MATTIA FELTRI
I nostri giorni sono infestati di mostri, di spettri, di bestie a sette teste. Siamo immersi nelle ore di veglia in inesauste cronache dell’orrore, i bambini ammazzati, i bambini gasati, i bambini in fondo al mare, i bambini abusati, i bambini nell’immobilità irreparabile di uno scatto, e nessuno fa niente. Questo diciamo nell’elevazione massima dello strazio: nessuno ci pensa. Noi ci pensiamo, noi sì. Accendiamo la coscienza come un cero, e nulla ci scalda più della nostra personale, inimitabile fiammella. Ecco, stare dalla parte dei bambini, eccola la soluzione. I bambini nella loro purezza incorrotta e violata ci ricordano noi stessi, da quale casa veniamo. Quando un mostro, uno spettro, una bestia a sette teste si abbattono su un bambino, e lo vediamo nel rullo di Twitter o nell’omnibus di un sito, è quello il momento in cui la pietà erompe a ricordarci la nostra stoffa di uomini.
I nostri giorni sono infestati, non se ne esce. Siamo stretti nell’angolo dell’amore incondizionato, la nostra spada digitale scintilla sui mostri, ed è la spada dei giusti, dunque impietosa. Che meravigliosa bestia a sette teste è l’uomo – pietoso e impietoso nello stesso momento, spietato per pietà – i conti tornano, il pareggio di bilancio è certificato dai servizievoli ragionieri che abitano la nostra anima. E allora tanto più ci bombardiamo da soli. Di foto, di video, di frame, fiumi di sangue, teste che rotolano, sevizie documentate in miliardi di pixel, nubifragi di mutilazioni, un tambureggiante accostarsi al male per allontanarsene, anzi per dichiararsene estranei, e infatti il nostro vocabolario s’è esaurito presto, abbiamo attinto fra le parole senza rimedio, le abbiamo rese convenzionali, additiamo i mostri e diciamo proprio così: mostri. Diciamo: da quale abisso sono emersi? Diciamo: è l’inferno. Diciamo: non sono uomini questi. Non sono uomini, sono emersi da un abisso, sono spuntati dall’inferno con occhi di brace, non hanno nulla da spartire con noi, noi siamo umani loro no, la nostra umanità non può scendere a patti con la loro disumanità, e dunque a morte, la morte è troppo poco, prima di ucciderlo gli farei altrettanto, deve soffrire né più né meno, lo ammazzerei a poco a poco. Verrebbe da dire che nulla come l’umanità reclama disumanità, ma sarebbe un circolo vizioso.
(Eppure ci sono gli indizi, dovrebbe barcollare la nostra rassicurante furia quando i più indifesi diventano indifendibili, quando le vittime si scoprono carnefici, quando i nostri figli magnificano la Shoah, gli stupri, la pedofilia, gli sgozzamenti su una chat di WhatsApp, e la madre che li denuncia dice «era un inferno», e invece era qui, fra di noi). Come fu vano scrivere millenni fa, fino a ieri, che l’uomo ha avuto in dono il bene e il male, che una fioca luce rischiara il suo cuore di tenebra, che il confine fra il bene e il male attraversa il cuore di ognuno. Sfogliamolo questo album sterminato, l’album dello sterminio, ogni volto tumefatto di milioni di morti, le grandi carneficine e le piccole macellerie quotidiane, che da millenni fanno di questo pianeta una fossa comune. È stato l’uomo. Sono stati i nostri fratelli, i nostri padri, siamo stati noi. Non c’è nulla di disumano, non c’è nulla di più umano. E l’unico modo di scampare al male, di provarci, è sapere che il male è l’ombra del nostro passo.
*editorialista de La Stampa.