ROBERTA TORRE
Sono una suora mancata
Dopo essersi presa una lunga pausa dal cinema – occupata da diverse regie teatrali – Roberta Torre è tornata nel 2017 con Riccardo va all’inferno, bizzarro musical shakespeariano con Massimo Ranieri, e sembra averci ripreso gusto. Da qualche tempo sta lavorando a un nuovo film e a un documentario. Intanto, su FoxLife, è appena andata in onda la sua prima serie tv, Extravergine. La protagonista Dafne Amoroso (Lodovica Comello) è una quasi trentenne vergine, non in senso astrologico, che, per colpa di un equivoco, viene promossa a sex blogger.
Da Tano da morire, il suo esordio del 1997, a Extravergine, la musica ha sempre un ruolo fondamentale nei suoi film.
«Per me suono e immagini vanno sempre insieme. Ho una grande passione per il musical e se non avessi fatto la regista avrei voluto diventare musicista. Peccato, però, che non ho mai imparato a suonare uno strumento».
Che cos’altro le sarebbe piaciuto fare?
«Fondamentalmente la suora. Ma era una carriera troppo difficile».
In che senso?
«Non mi sarei accontentata di diventare una monaca qualunque. Avrei voluto essere un po’ Bernadette, avere una dimensione mistica. Ma prendere i voti non mi avrebbe garantito le visioni».
Era un’idea romantica o aveva la vocazione sul serio?
«Tutte e due. Ma alle medie mi sono innamorata per la prima volta. E lì ho capito che la suora non la potevo fare. Le gioie della carne hanno preso il sopravvento (ride)».
Dafne a 29 anni è ancora vergine. Lei quando ha scoperto il sesso?
«Molto piccola, avrò avuto 12 anni».
Ha mai avuto un colpo di fulmine? Il cosiddetto amore a prima vista?
«Amore no. Il desiderio, legato ai sensi intendo, quello è sempre stato immediato. Se una cosa mi piace mi piace subito. Funziona così sempre, per il sesso, un cibo, un vestito».
In quali campi si applica il desiderio?
«Dipende. Col tempo, alcuni sensi si acuiscono, altri, invece, perdono importanza. Prima ero più tattile, adesso ho meno bisogno di toccare. E anche di gustare. Esercito di più la vista e l’udito».
Nuove passioni?
«Da qualche anno ho scoperto quella per gli animali. Ho preso un labrador. Olmo, come il personaggio di Novecento, in onore di Bernardo Bertolucci. Lo adoro anche se ho scoperto che è un cane maschilista. Invece di venire lui da me per farsi fare le coccole mi obbliga ad andare io da lui. Si mette sul divano, sta fermo a pancia all’aria e mi guarda finché non mi decido».
Extravergine è la sua prima serie tv. Com’è andata?
«È anche la prima volta che faccio la regia di un progetto non mio. Ho imparato cose nuove, per esempio la possibilità di avere più tempo per lavorare sui personaggi. E che quando dicono che in tv i registi vengono un po’ maltrattati è vero nel senso che la scrittura, i dialoghi, vengono prima di tutto».
La verginità da valore è davvero diventata un fardello?
«Un inutile orpello. Almeno questo è l’assunto di questa storia. Che, però, ha a che fare con l’idea di una verginità anche di sguardo».
Com’è cambiato l’immaginario femminile al cinema e in tv?
«Secondo me il problema è che i personaggi femminili scelgono di rado come reagire agli eventi della vita e ancora più raramente lo fanno in modo originale. I traumi vengono elaborati in modo sempre un po’ tradizionale. Alle donne non è concessa emancipazione visionaria. Imprevedibilità. Ciò che, per fare un esempio, succede in una serie come Fleabag».
Dove la protagonista reagisce a un lutto sviluppando una sorta di frenesia sessuale.
«Ecco, in Italia non ci sono le premesse neppure per pensare una storia del genere».
Mi dica del nuovo film al quale sta lavorando.
«Parla di un’attrice che ha perso la memoria e che ripercorre la sua vita attraverso i suoi film. O, meglio ancora, è una storia sulla perdita della memoria e sulla possibilità che il cinema offre di ricostruirla in modo sempre diverso».
Lei i suoi film li riguarda?
«Cerco di non farlo in tempi brevi, ma mi capita, e mi colpisce sempre. Un po’ come quando guardi le vecchie foto e in certe cose ti riconosci, per altre pensi: “Quella cosa lì non la farei mai più”».
Dopo Extravergine le è venuta voglia di una serie tv tutta sua?
«Assolutamente. Ma non subito. Oltre al film, che è la mia priorità, sto scrivendo un docu-film, una sorta di Antologia di Spoon River che ruota intorno alla figura di Porpora Marcasciano, la presidente del Movimento identità transessuale. Una scrittrice, attivista, con una storia bellissima».
Un progetto che, invece, ha accantonato tempo fa è quello sul Rubygate.
«Prima che scoppiasse il caso venne da me Patrizia DA’ ddario con alcune registrazioni. Mi chiese di ascoltarle. Alla fine decisi di lasciar perdere, ebbi l’intuizione che il tempo mi avrebbe superato».
Tornando alle vocazioni mancate. Ce ne sono altre?
«Avrei voluto fare la psicanalista, avere a che fare con i meandri della mente è sempre stata una mia fissazione».
In base alla regola: se sei un po’ matto fai lo strizzacervelli?
«Esatto. Ma poi ho capito che sarebbe stata una strada lunghissima e che mi sarei scocciata prima».