FELICE LIMOSANI
Professione: digital storyteller
Felice Limosani ha fatto la quinta elementare, quindi le scuole medie serali, e poi ha passato il resto della vita a inventarsi la vita. L’ha proprio proiettata sul muro della mente e l’ha inseguita. L’ha progettata come una macchina scenica e l’ha osservata girare. Fino a diventare prima il digital storyteller più richiesto dai brand, creatore d’installazioni e videoproiezioni in grado di allargare le frontiere di una nuova forma di coinvolgimento e persuasione detta «art marketing emozionale». E adesso, nella maturità artistica, impegnato in una serie di progetti dedicati alla valorizzazione spettacolare della cultura italiana. «Mi ritengo fondamentalmente uno sperimentatore, un innovatore allo sbaraglio». Sua l’installazione Magnificent in scena a Palazzo Vecchio a Firenze, storia del Rinascimento proiettata sui muri della Sala DA’ rme con le opere che prendono vita accompagnate dalla voce narrante di Andrea Bocelli. E di sua invenzione le immagini che verranno proiettate nel Duomo di Matera il 15 dicembre, a conclusione dell’anno come Capitale Europea della Cultura.
«Le vede queste immagini?», dice, porgendo un visore per la realtà virtuale e annunciando un nuovo progetto dedicato
a Dante Alighieri. «Grazie a questo apparecchio voglio portare l’arte nelle carceri, negli ospedali, nelle scuole. Ovunque ci sia privazione del suo godimento».
Dalla sua espressività la parola «provocazione» sembra bandita. Perché?
«Perché è uno strumento consolidato per catturare l’attenzione, il mondo ne abbonda e non m’interessa. Preferisco catturare il ricordo, che è una forma d’ingresso nella coscienza più profondo. Il ricordo sedimenta, diventa germoglio, e poi si trasmette».
Come funziona il suo cervello?
«Come un mixer musicale, che smonta e rimonta con atteggiamento combinatorio per ottenere un risultato emozionale, nel segno dell’interdisciplinarità. Questa è la mia vocazione. Tolgo la camicia di forza ai linguaggi e li lascio liberi di incrociarsi. Sono cresciuto a Foggia, in mezzo alle donne, e ragiono al femminile, con pragmatismo, voglia di avvolgere ed emotività».
A un certo punto è stato dj nelle località vip d’Italia. Come è successo?
«Volevo fare il musicista, poi mia sorella Arcangela mi portò a vedere La febbre del sabato sera ed ebbi l’illuminazione. Comprai due giradischi e iniziai a organizzare delle feste, dove mi notò Arnaldo Santoro, autore di Quelli della notte, e mi nominò direttore artistico della Taverna del Gufo dove suonavano Pino Daniele e Gegè Telesforo: avevo sedici anni. Un giorno comprai mille lire di gettoni e andai al centro Sip di Foggia, in piazza Cavour: telefonai a Panarea dove venni scritturato come disc jockey al Raya. Suonavo davanti a quattro persone e a un cane, Janek, che dormiva in mezzo alla pista, ma il giorno dopo arrivavano in decine a chiedermi le cassette. Capii che il mio pubblico erano le barche in rada, la gente sui terrazzi delle ville. Dal 1982 al 1999 ho vissuto così, d’estate a Panarea e d’inverno a Cortina. Di notte lavoravo e di giorno leggevo saggi di storia e sociologia, e rafforzavo la mia cultura».
Poi è arrivato il periodo delle invenzioni.
«Fondai una startup che venne acquistata da Nokia, creavo delle app che funzionavano come una sorta di tavolozza di colori in cui ciascuno poteva intingere il pennello e raccontare una storia, associando musica, parole e colori. Ai tempi non c’era neppure Google, ed era un progetto pionieristico. Istintivamente intuii quanto la tecnologia avrebbe pervaso il futuro, e quanto la nostra conoscenza sarebbe stata mediata da uno schermo».
Come è diventato direttore artistico di Luisaviaroma, storico concept store di Firenze?
«Incontrai per caso Andrea Panconesi e decidemmo di trasformare l’esperienza di vendita. La sera svuotavo il negozio e ospitavamo cultura, mostre, i concerti di Giorgia e di Malika Ayane. Inventammo la prima bottiglia “vestita” da uno stilista, Elio Fiorucci. E su commissione dei brand di moda trasformavo le vetrine in sculture cinetiche, lavorando coi campi magnetici, la meccanica, l’acqua, i video. Ho convinto le griffe a fondare un nuovo mecenatismo, a distinguere tra convincimento e coinvolgimento, un po’ come faceva Leonardo da Vinci con le sue macchine effimere, che facevano scaturire emozione e racconto. Poi, insieme al sociologo Francesco Morace, ho codificato questo paradigma che associa arte, comunicazione, intrattenimento e commercio, e l’abbiamo chiamato “digital storytelling”».
Un linguaggio con cui ha esposto al Louvre e ad Art Basel. Perché non le basta più?
«Perché ormai s’è consolidato e viene offerto come prodotto e servizio, mentre dentro di me è cresciuta sempre di più la vocazione umanistica. Sono partito col Rinascimento e ora sarà la volta dell’installazione Pensieri illuminati nella cattedrale di Matera, un’installazione musicale creata insieme alla direttrice d’orchestra Beatrice Venezi. Raccoglierò riflessioni sulla vita in quindici chiese d’Italia e attraverso un programma di grafica le trasformerò in pixel, proiettandole su quindici musicisti vestiti di bianco. Poi nel 2021 sarà la volta di Dante Alighieri: attraverso la realtà virtuale, con l’appoggio di Beatrice Ferragamo e dell’assessore Tommaso Sacchi, immergerò il pubblico nella vita del sommo poeta attraverso le incisioni di Gustave Doré, nella Basilica di Santa Croce a Firenze. Vorrei che la tecnologia avesse lo stesso effetto che ebbe la televisione negli anni Cinquanta, quando insegnò l’italiano agli italiani. Il patrimonio artistico deve diventare un dialetto nazionale, parlato finalmente da tutti».