BECK HANSEN
«Is back». E con un nuovo album
«Non ci credo! Posso fotografarla?». Alla fine di questa intervista, prima di salutarci, mostro a Beck una cosa: la foto del muro della stanza dove sono cresciuto, sul quale avevo trascritto il ritornello di Loser, forse la sua canzone più famosa. Beck sembra quasi stupito che un adolescente potesse aver dato tanta importanza a quel pezzo, anche se Loser rappresenta uno dei singoli simbolo degli anni ’90, «I’m a loser baby, so why don’t you kill me», uno dei manifesti della generazione X, nichilista e smarrita. Era il 1993, da allora Beck è diventato un monumento sfuggente, la sua carriera è stata fatta di continua ricerca sonora e di svolte improvvise, fino a Hyperspace, il suo quattordicesimo album, in uscita il 22 novembre, assemblato con la collaborazione di un personaggio in apparenza lontano da lui come Pharrell Williams. Il risultato è un disco etereo e inquieto.
Beck si è presentato all’appuntamento con l’immancabile cappello da cowboy, l’andatura sbilenca, le mani coperte di bracciali e, prima di iniziare, ci ha tenuto a farmi sapere quanto avesse apprezzato il party degli Oscar di Vanity Fair America, dove è stato fotografato con Lady Gaga (avevano lavorato insieme per l’album Joanne). «Festa stupenda. Erano anni che non mi invitavano, o almeno così pensavo. Ho chiesto il motivo al mio manager. Mi ha risposto: “Ma non è vero, ti invitano sempre!”. Così sono andato: è un evento enorme, è come aprire una copia di Vanity Fair ed entrarci fisicamente dentro. Una cosa magnifica».
Le prime parole del disco sono «Faster, farther», più veloce e più lontano. È così che si sente?
«Ieri mi hanno insegnato una parola francese, molto bella: arrière-pays. È l’entroterra, il punto dal quale non vedi niente e sei spinto a cercare qualcosa che stia oltre, a scoprire cosa c’è dopo la prossima curva. Questa è più o meno la vita. A volte l’arrière-pays ti conduce in posti assurdi, orrendi, a volte crea dei miracoli».
Come il singolo Saw Lightning che, con l’aiuto di Pharrell Williams, suona come una versione cowboy di Happy.
«È un bel modo di descriverla: per me Saw Lightning è una via di mezzo tra uno spiritual, un gospel, Johnny Cash. Desideravo da tempo lavorare con Pharrell, ma per un periodo lui ha avuto così tanto successo che era inavvicinabile. Ora siamo a un punto delle nostre vite in cui entrambi abbiamo bisogno di sperimentare. Il tempismo è tutto».
A volte il tempismo è sbagliato: lei nel 2015 vinse il Grammy, ma fu attaccato in diretta da Kanye West, che le rovinò il momento.
«Fu strano, era un onore per me, ero felice e un personaggio che ammiravo come Kanye mi ha attaccato davanti a tutti. Fu spiacevole, ma non volevo creare altri problemi, ero solo felice di essere lì. C’erano Pharrell, Beyoncé, Sam Smith, Prince mi stava consegnando il premio: tutti paralizzati. È stato surreale, io sono più abituato a stare sullo sfondo che al centro. Non sono una persona competitiva e il successo
Ci sono persone costantemente presenti a se stesse, che riescono a vivere il «qui e ora» con soddisfazione. Io no. Io sono sempre altrove
non mi interessa granché, altrimenti avrei fatto altre scelte e magari ne avrei avuto di più. Ma non l’ho mai cercato».
Che cos’altro ha cercato?
«Ho coltivato il costante desiderio di essere altrove. Per questo sono affascinato dalla meditazione, dallo zen: vorrei saper stare anche io “nel momento”, completamente soddisfatto. Ci sono persone che ci riescono, ma la vita mi chiede sempre di essere in quattro posti contemporaneamente ogni giorno, fisicamente e mentalmente».
Nell’era del «sempre connessi» non è facile essere «nel momento».
«Una volta non ero aggiornato costantemente su cosa stavano facendo i miei amici, se si divertivano anche senza di me, e mi stava bene così. Oggi è diventato difficile non sapere tutto di tutti. Ma non mi lamento: viviamo in tempi stimolanti. Anche l’elettricità ci ha tolto cose belle, ma quante ce ne ha date? E vale per le automobili, per Internet, per gli smartphone».
In Chemical canta: «L’amore svanisce, come un miracolo». Una canzone sentimentale ma pessimista.
«Non la vedo necessariamente così. Il punto è come navighiamo nella nostra vita interiore. C’è chi cerca di essere sempre costantemente infatuato, c’è chi ha le sigarette, chi ha lo sport, chi parla tutto il tempo della propria macchina o della moto. Siamo umani e imperfetti, e stiamo facendo del nostro meglio per andare avanti, quindi io celebro qualunque cosa ci dia conforto e ci faccia resistere. Il passato, le paure, i traumi che ci portiamo dietro sono un puzzle: serve una creatività immensa per risolverlo».
Lei almeno ha la musica per navigare in mezzo a questo caos.
«La musica, quando la crei e quando la ascolti, ti restituisce il privilegio di tornare bambino: riprovi la gioia di goderti le cose, toccarle, impararle, rovesciarle. È un modo per accedere alla naturalezza che perdi quando cresci e, come essere umano adulto, ti tocca imparare a stare composto e dritto».
Lei quando ha dovuto impararlo?
«Come tutti, il primo giorno di scuola: i nostri problemi iniziano lì, quando siamo bambini e, per la prima volta, ci dicono “siediti e non muoverti, stai fermo lì”. Per un periodo ho dovuto fare fisioterapia, per una serie di guai fisici che ho avuto a causa dei continui tour. La fisioterapista mi ha detto: “Le sue difficoltà si vedono dagli occhi, sono come raggi laser incandescenti, bruciano mentre il suo corpo è tutto rigido”. Il problema della vita moderna è tutto qui».
L’anno prossimo compirà cinquant’anni. Le fa effetto?
«Ho uno strano senso del tempo: per me è sempre tutto appena successo. A volte penso a episodi che mi sembrano risalire a un paio di anni fa al massimo e scopro che sono successi nel 2003. Il corpo è nel tempo: invecchia. Ma la mia mente sta fuori dal tempo: va per i fatti suoi».
È strano, perché lei ha un’aria da eterno adolescente.
«Sto facendo del mio meglio per distruggerla, purtroppo. Sono anni che vorrei prendermi un periodo sabbatico e non ci riesco: c’è sempre qualcosa di nuovo da fare, un nuovo ciclo che ricomincia, come questo album, che non era in programma eppure è arrivato e, in un paio di mesi, era pronto».
Come userebbe un ipotetico anno sabbatico?
«Per dormire, principalmente. Il sonno è diventata la risorsa più preziosa al mondo».
Da padre di un adolescente, come giudica l’attivismo politico di questa generazione?
«Ogni generazione desidera cambiare le cose: noi avevamo la stessa voglia, ma quando organizzavamo una manifestazione si presentavano in sette. Non c’erano i social media, e poi la generazione X era ristretta, gli hippie non volevano figli, nei quartieri non c’erano bambini. Viviamo in tempi entusiasmanti anche per questo motivo: i ragazzi sono tanti, hanno la possibilità di trovare una propria voce e diffonderla davvero».
Ho riletto il ricordo che scrisse di David Bowie. Quand’è l’ultima volta che lo ha sentito prima che morisse?
«Ci siamo scambiati alcune email, forse quattro anni prima. Non eravamo proprio amici, ma alcune delle conversazioni migliori della mia vita le ho avute con lui. Andava a una velocità pazzesca e non c’era argomento sul quale non potesse parlare per ore. Era impressionante, ogni volta pensavo: voglio un amico come lui. Impiegai dieci anni per chiedergli di lavorare insieme, ma non accadde. La sua musica è stata un’ispirazione immensa. Lui, Bob Dylan, Caetano Veloso, Serge Gainsbourg, Joni Mitchell hanno fatto parte della mia infanzia: tendi a darli per scontati, ma poi capisci quante strade hanno aperto».
Una domanda frivola: quanti cappelli ha?
«Tantissimi, ogni tanto me ne regalano uno o me li compro io. La storia di averne sempre uno in testa è iniziata quando è morto mio nonno: si vestiva di scuro, con un cappello nero che mi regalò prima di morire. Allora nessuno indossava il cappello, solo Paul Simonon dei Clash e forse, a volte, Bowie. Ho iniziato a collezionarli, ma alla fine di cappello importante nella vita ne hai solo uno: per me è quello che indosso ora. L’ho comprato in una vecchia stazione ferroviaria in Australia, anni fa. Ogni testa ha un cappello, devi solo riuscire a trovarlo».