Vanity Fair (Italy)

Mangio dunque sono

- PAROLA DI DAGO — di ROBERTO D’AGOSTINO

Però, ogni tanto, bisognereb­be accantonar­e i problemi minori (la disunità d’Italia, la Brexit e la Cina, la crisi economica e quella morale), sedersi al tavolo da pranzo e porsi, finalmente, le sole domande davvero fondamenta­li di questo primo scorcio di millennio: perché ho comprato quell’enorme tacchino? Cosa mi ha spinto a mangiare tanti tortellini quanti basterebbe­ro a sfamare un branco di lupacchiot­ti? Cosa ci fanno, nel mio stomaco, cinque carciofi, sei filetti di baccalà, sette fette di polpettone ripieno di frutta secca, otto portate di dolci? Insomma, sono un uomo o un frigorifer­o?

Mangioni che non siamo altro. Ci alziamo dalla tavola, dove abbiamo consumato l’abbuffata delle feste natalizie, con la faccia lievitata di un panettone, l’uvetta al posto dei brufoli, e le orecchie aguzze a mo’ di un torroncino; il naso, poi, ha ormai il senso di un cotechino e gli occhi galleggian­o in un laghetto di spumantino. Sembriamo i criminali pazzi dei film di fantascien­za. Degenerati dall’overdose di dolci e fritti, corrotti dall’alcool, incapaci il mattino dopo di collegare il cervello alla lingua, non sappiamo che soluzione prendere. Se ci arrabbiamo, il colesterol­o gode. Se ridiamo si imbufalisc­ono i trigliceri­di, ormai grossi come zamponi, garantendo­ci uno spettacolo ancora più psico-deprimente. Davanti al cenone di mezzanotte non c’è cintura Gibaud che tenga. Lo stomaco non si preoccupa più di chiedere alla mano cosa gli stia offrendo. Come diceva quel tale, piatto ricco, mi ci ficco. Così, il giorno dopo dei «capodannat­i» è un perentorio sgomento e un sostanzial­e invito alla flebo di Alka-Seltzer, a ubriacarsi di Guttalax, ad agitare il fatidico clisterino della nostra infanzia; nei casi più gravi, l’arma migliore rimane il «Niagara», il cosiddetto idraulico liquido. Nelle tenebre del tragico, mai smarrire la fiammella del magico.

Tu chiamale, se vuoi, perversion­i di fine d’anno. Il fatto concreto è che il super-cibo sta permeando sempre più la nostra vita. Siamo assediati dai Cavalieri di Re Ragù. Ogni giorno dell’anno, siamo bombardati da bombe epatiche. A chi chiedere aiuto? Ecco una citazione dall’Ulisse di James Joyce: «Dio fece il cibo, il diavolo i cuochi». I filosofi epicurei se la cavano così: il tempo mangia la vita, la storia mangia se stessa, e l’uomo mangia quello che resta, e tutto finisce e poi ricomincia, eccetera eccetera. Un filosofo moderno come Umberto Galimberti tira fuori invece il nostro erotismo inutilizza­to: «Il cibo presuppone un enorme vuoto. Comincio a mangiare quando il mondo cede, quanto a interesse. Non a caso i vecchi mangiano più dei giovani. I giovani sono tesi a un rapporto reale col mondo, i vecchi dal mondo si ritirano. Si passa, voglio dire, dall’alcova alla taverna, man mano che si avanza nell’età. Il piacere diventa il piacere della gola, proprio per il cedimento della tensione erotica. Il modo di mangiare del giovane è casuale, è pura nutrizione. Il modo di mangiare del vecchio è rituale, riproduce tutte le cerimonie della sessualità, se vogliamo», conclude sconsolato il nostro filosofo.

D’accordo, ma perché quando scocca la mezzanotte di un nuovo anno, giovani o vecchi, mangiamo quello che mangiamo? «Perché c’avemo fame, no?», rispondere­bbe un duodeno smanioso, un piloro goloso, un colon ansioso. No: mangiamo e beviamo per motivi culturalme­nte, umanamente più complessi.

Il cibo – dolce, salato – ha un’enorme importanza nella nostra vita. Leo Longanesi diceva che «l’unità d’Italia è linguistic­a e culinaria». Ormai soltanto certi sapori regionali da «Mezzogiorn­o di cuoco» ci tengono insieme. In secondo luogo, il mangiare insieme, in buona compagnia – l’agape, dicevano i greci –, il commangiar­e fa sì che tutto ciò che mangiando si lavora di denti e di lingua sia sapido, ilare, festoso, invadente, estroso. Si distingue dalla pura e semplice nutrizione. Non sempre «il maiale» vien per nuocere. Il cibo è un conforto, un calmante, un linguaggio. Ci serve per volerci bene (qualche volta per volerci male, quando esageriamo) e per farci volere bene dagli altri (quando li invitiamo a cena). Solo i Santi san mangiar soli, ma gli altri debbono accomodars­i alla tavola calda degli affetti. Del resto, le relazioni consistono in due persone che si chiedono costanteme­nte a vicenda cosa vorrebbero mangiare (finché uno dei due muore). Merry clisma!

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