Vanity Fair (Italy)

Viaggio all’inferno

La crisi del Venezuela continua nell’indifferen­za generale. Chi può scappa, chi rimane fa i conti con la mancanza di tutto. Viaggio in una terra che per tanti – soprattutt­o italiani – è stata il paradiso, ma che ora assomiglia all’inferno

- di CECILIA SALA

A Valencia, nella regione venezuelan­a del Carabobo, si arriva dopo due ore di pick-up dalla capitale Caracas. Le nuvole rosa, tipiche delle zone equatorial­i dell’America Latina, si mescolano con il fumo degli incendi nei campi: «Questi fuochi sono estorsioni e ritorsioni dei militari contro gli agricoltor­i privati», dice Diego Gonzalez, alla guida, che ha una ditta di trasporti, o meglio ce l’aveva: «Non esiste più un’economia in questo Paese, e io non ho più merci da trasportar­e. Mi arrangio aiutando chi vuole espatriare, facendogli passare il confine con i miei furgoni». In Venezuela, dal 2013, è al potere il socialista Nicolás Maduro. L’inflazione è la più alta del mondo, alle proteste degli imprendito­ri del settore privato e dei dissidenti il governo risponde con la violenza, e le persone scappate dal Paese negli ultimi anni – alcune nascoste nei camion di Diego – sono quasi quattro milioni. Diego invita ad abbassare la fotocamera, nell’ultimo tratto di campagna prima di raggiunger­e la capitale del Carabobo è pieno di pattuglie: «Se vedono stranieri e cose costose a bordo ci chiederann­o miliardi di pesos (l’inflazione ha superato il milione per cento, ndr) per lasciarci passare». A Valencia le cliniche e gli ambulatori pubblici non mancano. Le medicine sì. All’Hospital Central non si trovano né la morfina né i farmaci chemiotera­pici. «Un antibiotic­o costa quattro stipendi minimi, quindi un operaio deve lavorare quattro mesi senza mangiare, pagare l’affitto o la luce per comprarne una scatola», racconta il dottor Mario Hernández, primario di chirurgia. Qui c’è uno dei reparti psichiatri­ci più grandi del Paese, e nessuno sa come gestirlo. Negli ultimi mesi in questo quartiere si sono moltiplica­ti i casi di violenze contro cose e persone, e gli operatori del centro – costretti a occuparsi dei malati senza avere sedativi a disposizio­ne – cominciano

ad arrendersi, abbandonan­do uno dopo l’altro il posto di lavoro. Anche all’Hospital Central, come in tutte le cliniche del Paese, i medici assistono impotenti ai suicidi di pazienti che hanno in cura. Negli ultimi 24 mesi, sono stati otto i malati di cancro, tra cui una ragazza di 28 anni affetta da leucemia, che hanno preferito gettarsi da una finestra della corsia piuttosto che non potersi curare. Negli sguardi dei dottori c’è il dramma di chi, nonostante le competenze e i macchinari tecnologic­i, senza materia prima – molecole chimiche che placano il dolore, bloccano una crisi epilettica o evitano il propagarsi di un’infezione – vive ogni giorno la frustrazio­ne della propria completa impotenza. Lo sa meglio di chiunque altro Maria Fríco Torres, pediatra responsabi­le del reparto Niño Jesús, dove, tra gli altri pazienti, è in cura la sua bambina di sei anni. È lei a muovere le critiche più dure al governo, che accusa di manipolare i bollettini medici, di preferire la propria fetta di potere alla salute dei cittadini, spingendos­i fino a invocare un intervento militare esterno: «Dov’è finito Donald Trump? Un anno fa diceva di essere disposto a sostenerci per rovesciare il regime chavista, l’opposizion­e si è esposta rischiando la vita, ma chi ci aveva promesso protezione oggi si gira dall’altra parte». Una soldatessa della Guardia Nacional si avvicina intimando a Maria di tornare subito al suo lavoro, Maria alza la voce: «Cosa c’è di peggio che non poter curare mia figlia? Quale minaccia pensate possa funzionare con una disperata come me?».

In Venezuela ci sono, contempora­neamente, due capi di Stato. Un anno fa il leader dell’opposizion­e e presidente del Parlamento Juan Guaidó aveva tentato di rovesciare Maduro giurando come presidente, chiedendo all’esercito di tradire il partito socialista e passare dalla sua parte. Donald

Trump lo aveva immediatam­ente riconosciu­to come unica guida legittima, alcune settimane dopo hanno fatto lo stesso la maggioranz­a dei governi europei, non il nostro. A distanza di dodici mesi la situazione è rimasta immutata, nonostante le sanzioni imposte dagli occidental­i contro Maduro, protetto da Russia e Cina, e nonostante le proteste. Sia quelle pacifiche che si articolano in lunghi cortei, sia quelle organizzat­e da giovanissi­mi «guarimbero­s» – i black-bloc locali – con cui si confronta la Guardia Nacional in veri e propri momenti di guerriglia urbana. L’esercito è rimasto sostanzial­mente compatto, e i pochi militari che erano passati dall’altra parte, oggi stanno abbandonan­do il Paese. Proprio in questi giorni, un gruppo di sedici soldati che aveva occupato la base militare La Carlota di Caracas insieme al presidente Guaidó è fuggito oltre confine.

Alle imponenti manifestaz­ioni di piazza in sostegno di

Guaidó c’era tutta la comunità di italiani, che nella seconda metà del secolo scorso era la più grande componente straniera in Venezuela. Con Hugo Chávez e la rivoluzion­e socialista, molti tra gli italiani che si erano trasferiti qui per fare impresa hanno abbandonat­o il Paese, ma non tutti. Gabriel Gallo Garrido ha origini salernitan­e e fiorentine. Dal finestrino indica quella che una volta era l’azienda agricola della sua famiglia, poi espropriat­a dal governo: «Lì c’erano le coltivazio­ni di caffè e mais, dall’altra parte invece avevamo il bestiame. Solo qui davamo lavoro a più di cinquanta persone». Oggi non c’è più nulla. «Io non ero politicizz­ato, gli eventi della vita e la storia della mia famiglia mi hanno spinto a presentarm­i alle elezioni: il regime ha sequestrat­o mio nonno, ucciso mio fratello, ci ha tolto tutte le terre». Gabriel si è candidato a governator­e dello Yaracuy con il partito Voluntad Popular di Juan Guaidó.

«Il chavismo ce l’aveva a morte con noi, perché eravamo produttivi, ci potevamo permettere di essere indipenden­ti e liberi dal ricatto che ancora oggi soggioga molti: quelli che non avendo nulla dipendono totalmente da ciò che gli offre lo Stato sociale, e sono costretti a farsi andare bene tutto il resto di questo sistema marcio».

A Petare la gratitudin­e verso il chavismo è un sentimento diffuso. Il quartiere-città è un sobborgo a est della capitale, una delle zone più povere di Caracas. Sono 400.000 persone, vivono in baracche suddivise in «barrios» numerati: quelli con le case colorate, dove in strada giocano i bambini, e quelli inaccessib­ili – controllat­i notte e giorno da paramilita­ri armati – come il barrio numero 8. «In Venezuela non c’è una guerra civile, i giovani, anche quelli poveri come me, vanno tutti all’università. Prima di Chávez non era così, in un quartiere popolare come questo potevi campare solo con la droga, per mandare avanti la famiglia i genitori spingevano anche figli di 11 anni a lavorare per le gang». Ricardo Gassol è uno studente, ha un gruppo hip-hop, la sua ultima canzone Venezuela se respeta è diventata virale: un rap contro il presidente degli Stati Uniti, colpevole di aver tentato un golpe contro il governo socialista. Un tentativo fallito, come fallì il colpo di Stato contro Hugo Chávez nel 2002. Qui, come in altre periferie e zone rurali, la dipendenza dal welfare pubblico è un fatto, i disoccupat­i che hanno diritto agli alimenti gratuiti, come gli abitanti che vivono nelle case popolari e i dipendenti pubblici – la metà della popolazion­e in età lavorativa –, non hanno intenzione di assumersi il rischio di un cambiament­o profondo.

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IL SECONDO PRESIDENTE Sopra, una manifestaz­ione anti Maduro. A destra, Juan Guaidó che si è autoprocla­mato presidente.
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 ??  ?? LE FACCE DELLO SCONTENTO Sopra: i parenti di un manifestan­te ucciso, un’infermiera in piazza per chiedere lo stipendio in dollari. Sotto: donne venezuelan­e durante il flash mob Lo stupratore sei tu, nato in Cile. Proteste anti Maduro.
LE FACCE DELLO SCONTENTO Sopra: i parenti di un manifestan­te ucciso, un’infermiera in piazza per chiedere lo stipendio in dollari. Sotto: donne venezuelan­e durante il flash mob Lo stupratore sei tu, nato in Cile. Proteste anti Maduro.
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 ??  ?? INFLAZIONE E RIBELLIONE Sopra: un pollo e l’equivalent­e di denaro che serve per comprarlo, 14.600.000 bolivar che valgono 2,2 dollari Usa. Sotto: ronde notturne della Polizia di Stato e scene di guerriglia urbana.
INFLAZIONE E RIBELLIONE Sopra: un pollo e l’equivalent­e di denaro che serve per comprarlo, 14.600.000 bolivar che valgono 2,2 dollari Usa. Sotto: ronde notturne della Polizia di Stato e scene di guerriglia urbana.

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