Natale in corsia
Mi sono sfidato in un confronto pubblico con Marco Travaglio e, appena è finito e sono uscito di buon umore diretto a casa, hanno cominciato a fischiarmi le orecchie. Esattamente come quando ci fischiano le orecchie e ci dicono: qualcuno ti sta pensando. Né più né meno. Solo che il fischio non ha smesso venti secondi dopo e nemmeno dopo un minuto e nemmeno dopo un’ora e, passato un giorno e mezzo di fischio continuo, implacabile tortura di ogni singolo istante, sono andato in ospedale, al Gemelli di Roma. Abbiamo una specie di abbonamento, io e la mia famiglia. Appena arriva Natale uno di noi ci va a trascorrere le vacanze. Mia moglie passò un lungo Natale ricoverata per una polmonite, e cannuccia infilata nel costato a drenare l’acqua. Io ne ho fatti già due, uno completo di Capodanno, la prima volta i reni, la seconda uno streptococco beta-emolitico di gruppo A. Mi piace il Gemelli. È una città. È bello da girare, si passa il tempo a far nulla, un lusso così negato di solito. Si guarda, si ascolta, si passeggia piano dopo piano, fino al settimo dov’è la stanza del Papa, fino all’auditorium, fino ai seminterrati dove si impilano cassette di frutta e si sentono gli odori della cucina, fino alla libreria dove un amico perduto, dopo la guarigione e le dimissioni, comprava giocattoli e libri illustrati e poi andava nel reparto di pediatria ad abbandonarli sui letti sfatti.
È bello osservare i parenti che incedono con passo tambureggiante, le braccia a cesto coi fiori e i dolci, i baci guancia a guancia, i sorrisi fiduciosi, le sedie accanto ai letti degli anziani immusoniti, i medici in camice verde che marciano sempre verso l’improcrastinabile, le infermiere dolcemente irritate per la scomparsa turistica del degente, i conciliaboli di ricoverati a comunicarsi i risultati clinici, i volti con una ruga o una lacrima di troppo, le barelle negli enormi ascensori con le flebo che sorvolano i malati, i grandi posacenere prima dell’ingresso per fumare una sigaretta di nascosto, l’esplosione vitale del bar travolto da una frenesia di tazzine.
Com’è tutto così lontano. Come sembra così pacificante il dolore, il dolore rimediabile e quello a cui resta soltanto la speranza, come ha bisogno soltanto di sé stesso e di un po’ di niente, di qualche inestimabile quarto d’ora di niente. Come è autosufficiente. Come non è nemmeno sfiorato dal vortice di demenza in cui balliamo là fuori in piene forze: sono seduto in attesa di cominciare gli esami, e scorro i siti internet, i social, queste ventate di furia, gli strali, gli strilli dell’indignazione in catena di montaggio che paiono esplodere dallo schermo, le botte digitali che illividiscono ogni santo giorno di salute, chiudo l’iPad, chiudo gli occhi, e mi fischiano le orecchie perché non penso a nessuno e poi mi fischiano le orecchie perché penso a lei, la rivedo, mia figlia, l’altra volta, quando tornai che era quasi l’Epifania, e lo streptococco mi aveva lasciato una faccia rossa di ferite e nera di croste e lei, piccina piccina, mi fece chinare, mi accarezzò le guance, mi accarezzò sulle ferite e sulle croste, e non disse nulla.
Buon Natale.
*editorialista de La Stampa.