Ora sfido i cinepanettoni
Nell’ultimo film la regista americana Lulu Wang rivela parte della sua vita e la difficoltà di capire alcune tradizioni del suo Paese d’origine, la Cina. Però ne ha imparato la disciplina: andare avanti e lavorare sodo
«Quando ho detto a mio padre che avevo scritto un film sulla nostra famiglia mi ha chiesto “ma ti pagano?”. Poi lo ha visto alla proiezione ufficiale al Sundance, e la commozione del pubblico lo ha toccato». Faccio presente a Lulu Wang che nell’ambiente la mettono già sullo stesso piano di Jane Campion, la regista di Lezioni di piano. «È folle», ribatte, «ma la cosa che mi interessa di più è ispirare altre donne a lottare per lavorare a modo loro». Nata in Cina, a sei anni Wang ha lasciato Pechino per Miami e ha frequentato l’Università di Boston. Il film di cui la regista, produttrice e sceneggiatrice ha appena parlato, nominato a due Golden Globe e in Concorso anche al Zurigo Film Festival, è The Farewell - Una bugia buona, al cinema dal 24 dicembre. La protagonista è Billi (interpretata dalla rapper Awkwafina), un’aspirante artista cinese che vive a New York. A causa di una malattia dell’amata Nai-Nai, «nonna» in mandarino, torna a Changchun per scoprire che la famiglia sta tenendo la diretta interessata all’oscuro della verità, ovvero che le restano tre mesi di vita. Un evento accaduto anche a Wang mentre stava terminando il suo primo film, Posthumous.
La protagonista del suo film vive a New York e conosce a malapena la Cina, il suo Paese d’origine: quanto le assomiglia?
«The Farewell è basato su di me, sull’essere un’immigrata che vive lontano da casa e sui miei sentimenti per mia nonna. Era il 2013 quando le hanno diagnosticato un tumore, ma la cosa peggiore è che mia zia e i miei genitori hanno deciso di tenerla all’oscuro di tutto. Ho vissuto la situazione dal vivo,
in Cina, e dentro di me è nato questo film».
Divisa fra due mondi si sente un’outsider?
«Andando in Cina non ho capito molte cose, per esempio perché i matrimoni si fanno a mezzogiorno, e non di sera. E i produttori americani volevano sempre che spiegassi di più».
Ha dovuto fare i conti con quello che non le piace in Cina?
«Più che altro con quello che non comprendo. Quando ha letto la sceneggiatura mia madre mi ha detto: “Ti devo spiegare molte cose della Cina, dalla politica alle differenze fra nord e sud: non hai compreso la rivoluzione culturale, il comunismo e come la guerra abbia influenzato tutto”».
Cosa le ha risposto?
«Che ho trent’anni, che sono cose di cui mi parla da una vita e se non le ho capite non le capirò mai. Come non si possono capire lei e mia nonna: mia madre è una scrittrice, un’intellettuale, mia nonna ha combattuto nell’esercito comunista, hanno due sistemi di valori distanti anni luce».
Sente la pressione tipicamente cinese di eccellere in quello che si fa?
«No, ma la generazione precedente ha combattuto per avere un livello di vita migliore, e i loro sacrifici sono la pressione che sentiamo noi nell’essere migliori. Dai 4 ai 20 anni ho suonato il piano un’ora al giorno, anche quando non ne avevo voglia. A parte il senso di colpa, mi ha insegnato la disciplina: anche se odi qualcosa, esercitandoti continui a migliorare».
Si dice che un buon regista dovrebbe avere un buon orecchio musicale.
«È così, e ho lavorato alla colonna sonora del film con Alex Weston, un collaboratore di Philip Glass».
Vivendo a Los Angeles, da asiatica la prendono sul serio?
«A Hollywood se hai successo tutti ti prendono seriamente. Ma quando ci stai provando, sei solo una su un milione».
Statisticamente i maschi hanno una seconda chance, perché sono visti per il loro potenziale, mentre le donne se fanno qualcosa che non viene capito hanno chiuso.
«Il mio primo film non ha stabilito uno status, e chi lo vede adesso mi chiede come sia stato possibile: c’erano Jack Huston e Brian Marley, è costato solo tre milioni di dollari, ha avuto buone recensioni... non so se fossi stata un uomo come avrebbero reagito. Ma mia madre dice di non stare a pensare che sono donna e che sono un’immigrata. È solo una perdita di tempo, meglio andare avanti a lavorare sodo».