Vanity Fair (Italy)

Innamorars­i dopo un lutto

Innamorars­i dopo aver perso l’uomo o la donna della tua vita è una scommessa che non è facile fare. Ma ricostruir­e sulle macerie si può. Ecco le storie di chi ci sta provando

- di SILVIA NUCINI illustrazi­oni ROBERTO CIGNA

Che cosa rimane dopo un naufragio? Il respiro nei polmoni, la terra sotto i piedi, la paura del mare.

Le piccole cose portate dalla risacca che ricordano la vita di prima. «Ma la vita di prima non ci sarà mai più», dice Chiara. «Ce ne sarà un’altra, diversa».

Il naufragio di Chiara si chiama Giulio. Quello di Alessandro, Francesca. E poi ci sono Roberta, Luca, Danilo, Antonella, Filippo. Come quegli uragani caraibici che hanno tutti un nome.

La loro morte prematura ha lasciato compagne e compagni soli, bambini senza i genitori, vite da ricostruir­e, cose in cui tornare, piano piano, a credere. Tra queste, la più difficile di cui riappropri­arsi, è l’amore. Perché, dopo che l’hai perduto così, senza appello, diventa un sentimento complesso da immaginare e spiegare. Anche a se stessi.

Irene ha 44 anni, ha perso suo marito quando ne aveva 35 e aspettava il suo secondo bambino. In questi 9 anni ha fatto i conti con la parola «vedova» e ha scoperto che ti si lega addosso con mille lacci difficili da sciogliere. «Anni dopo la morte di mio marito, mi sono sorpresa a provare attrazione verso uomini con i quali magari nemmeno avevo occasione di parlare. Insieme a quelle sensazioni lievi e vitali che avevo scordato, sono arrivate anche le prime fitte di senso di colpa. Le ho sentite, ancora più nitide, quando sono uscita con qualcuno: mi sembrava di tradire Filippo, di rinnegare il suo ricordo. A questo si è aggiunto anche il silenzio degli altri, i miei amici, i miei parenti. Nessuno, per anni, ha mai accennato al fatto che potessi, e forse dovessi, rifarmi una vita. Una vedova, un vedovo che torna ad amare è una specie di tabù sociale».

Il lutto del giornalist­a e scrittore Alessandro Milan che tre anni fa ha perso la moglie Francesca Del Rosso è stato, in qualche modo, un’esperienza collettiva: lui, il giorno dei funerali, scrisse su Facebook una lettera condivisa 7 milioni e mezzo di volte sui social. Poi un libro – Mi vivi dentro – in cui raccontò la perdita e la resilienza. Ora di libro ne ha scritto un altro, si intitola Due milioni di baci. È un romanzo su un uomo e una famiglia che ricomincia­no a vivere dopo una perdita, anche grazie alla presenza, sullo sfondo, di una donna che si chiama Giorgia. «Alle presentazi­oni del libro mi chiedono chi sia Giorgia, rispondo sempre che è una metafora della vita che continua. Dal pubblico, di solito, si alzano dei: “meno male”. Meno male che quella donna non c’è». Ma Giorgia, una Giorgia che però si chiama Silvia, nella vita di Alessandro Milan c’è davvero. Una delle ultime cose che Francesca scrisse sul quaderno che stava preparando per salutare i suoi bambini prima di morire, fu questa frase: «Ci sarò sempre, anche quando ci sarà un’altra donna accanto a papà». Alessandro la cita, «E non lo faccio per giustifica­rmi, ma per dire che l’intelligen­za e il cuore di Francesca non avrebbero mai voluto che io vivessi una vita monca», dice. L’amore, quando arriva, fa rumore. Un rumore assordante che non puoi non sentire. «Io, quando mi

sono innamorato di Silvia, non mi sono sentito in colpa verso Francesca, ma ho avuto la sindrome del sopravviss­uto: ho provato dispiacere perché a me era stata concessa quell’opportunit­à che lei non avrebbe mai avuto». Francesca e Silvia si conoscevan­o, e questo ha reso le cose un po’ più semplici: «Lei è riuscita ad accogliere, insieme a me, anche il mio dolore in modo amorevole e intelligen­te. Io, da parte mia, ho capito che ci sono certe cose che devo vivermi da solo, per rispetto verso questo rapporto, ma mi è chiarissim­o che, tra noi due, è lei ad avere il ruolo più delicato e complicato. Sono sinceramen­te ammirato dalla sua capacità di amarmi e di essere entrata nella vita dei miei figli, Angelica e Mattia, con delicatezz­a, di avere esaudito il loro desiderio di non vedermi più da solo».

Anche Linda, la figlia più grande di Luca e Roberta, chiedeva a suo papà che una donna tornasse nella loro vita perché «aveva bisogno di qualcuno con cui fare discorsi da femmine». E una donna, Laura, è arrivata. «Presto, per molti troppo presto», racconta Luca. Un tumore allo stomaco si è portato via Roberta un anno e mezzo fa, lasciando lui e i suoi figli, Linda e Matteo, totalmente annientati. «Non sono mai stato un buon babbo», dice Luca «lavoravo sempre, pensava a tutto la Roby. Quando ci siamo ritrovati da soli non ho voluto l’aiuto di nessuno, ho cominciato a fare io, sentendomi, però, totalmente inadeguato. La notte non dormivo mai». Un mese dopo i funerali della moglie, Luca manda una mail a Laura, l’addetta alle buste paga dell’azienda per cui lavora, chiedendol­e se ha voglia di prendere un caffè. «Gli amici, che continuava­no a darmi pacche sulla spalla e dirmi che avevo il dovere di stare bene, quando ho raccontato che stavo cominciand­o a vedere una persona, mi hanno giudicato male, hanno detto che era troppo presto. Ma per me non era troppo presto perché io, tutta la mia vita, l’ho passata in due. Da solo mi venivano i demoni in testa, l’unico modo che avevo trovato per scacciarli era bere». Luca racconta ai suoi figli di Laura poco dopo che la loro storia ha preso una forma, e lui ha iniziato a stare bene anche senza l’alcol. «Gli ho detto: ragazzi, ve la presento. Ma se a voi non piace, così come è entrata, esce dalle nostre vite. Siamo andati tutti insieme al cinema a vedere Zanna Bianca, probabilme­nte il film più brutto che avessimo mai visto. Forse per questo abbiamo riso molto». I suoi suoceri, che sono anche i suoi vicini di casa, hanno capito e accolto Laura. I genitori di Luca no. C’è voluto un anno – l’anno del lutto stretto, gli hanno spiegato – perché la invitasser­o a cena e la conoscesse­ro. Il giorno in cui Luca mi racconta la sua storia, è un giorno speciale: hanno da poco scoperto che Laura è incinta, la sera lo diranno ai ragazzi. «Non ho dimenticat­o niente della Roby, e se lei fosse ancora qui sarei l’uomo più felice del mondo. Ma la vita vince sempre su tutto».

Di questo è convinta anche Chiara, 43 anni, vedova da quando ne aveva 34 e Giulio è morto in 6 giorni per una encefalite partita da un mal di gola. I loro figli avevano 5 anni e 1 e mezzo. «Giulio era la mia metà, lo so e lo sento. Ma se mi fermassi a questa consapevol­ezza, continuare a vivere non avrebbe più senso e, nel confronto, nessun altro uomo potrebbe uscirne vincitore». Chiara, superando mille resistenze, da un anno ha iniziato una relazione con Stefano. Suo figlio Edoardo, che ora ha 13 anni, ha chiesto di conoscerlo subito «Io ero perplessa. Prima di presentarg­lielo ho detto ai

Ho detto ai miei figli: se volete ve lo presento, ma magari non dura. Se vi affezionat­e come si fa? Hanno scelto di correre questo rischio

ragazzi: magari non dura, se vi affezionat­e come si fa? Loro hanno deciso di correre il rischio». Chiara sa, e ha accettato, che questo nuovo amore è completame­nte diverso dal progetto famigliare che ha condiviso con Giulio. «Ma ho anche capito che dei pezzi di quel progetto, delle cose che immaginava­mo, posso portarle avanti con Stefano. Per esempio? Insegnare a sciare ai ragazzi. Una cosa piccola forse, ma che sa di costruzion­e».

La cosa più difficile che Alessandro ha dovuto affrontare dopo la morte di Antonella è stato vivere nel deserto che si era creato intorno a lui e Gabriele, il loro bambino di 4 anni. Gli amici di sempre che già si erano allontanat­i durante la lunga malattia di Antonella, erano definitiva­mente spariti. Inutile cercare sostegno e compagnia nelle famiglie dei compagni della scuola materna: «Mi sono accorto che li mettevamo a disagio con il nostro essere solo in 2, quindi monchi. Non eravamo mai invitati da nessuna parte». Allora si sono chiusi in casa: Alessandro suonava la chitarra, Gabriele ballava. Un anno così, a guarirsi con la musica. Finché, come nella storia di Tata Matilda, arriva una giovane babysitter a rompere quell’isolamento. «Mi ha detto: io sto a casa con il bambino, tu esci. E mi ha presentato i suoi amici, tutti molto più giovani di me, che ho 44 anni, ma accoglient­i e simpatici. Una sera in cui ero fuori con loro ho incontrato la ragazza con cui sto uscendo, ha 27 anni, mi piace molto; Gabriele la conosce, ma bisogna andare cauti».

Alessandro dice che se lui sta bene, sta bene anche suo figlio e che, sulla base di questo assunto, ha senso cercare una donna, non una mamma. «L’unica figura che può sostituire una madre è un padre, e io ci sono. Di Antonella parlo sempre, lui è contento, mi chiede com’era. Le sue foto e i suoi video non li vuole vedere, va bene così. Magari un giorno succederà, magari no».

Franco aveva visto Francesca nel grande magazzino in cui lavora ed era rimasto talmente colpito da quel viso da riconoscer­lo subito quando, anni dopo, l’aveva ritrovato su Gengle, l’applicazio­ne per genitori single a cui si era iscritto per partecipar­e a qualche trekking di gruppo insieme ai suoi due bambini. Non sapeva, Franco, quanta fatica fosse costata a Francesca quell’iscrizione, quel «rimettersi in vetrina» – come dice lei. Proprio l’ultima cosa di cui aveva voglia dopo la morte di Luca; aveva ceduto solo per l’insistenza di un’amica. Si erano incontrati a fare passeggiat­e, Francesca vedeva in lui un amico, Franco in lei una speranza per il futuro. «Quando l’ho capito mi sono nascosta dentro la corazza che mi ero costruita, avevo troppa paura di affezionar­mi di nuovo a un uomo, paura di poter soffrire. Avevo perso tutto, non potevo permetterm­i che accadesse di nuovo». Franco ha avuto costanza e pazienza e, poi, di queste due doti ha avuto bisogno anche Francesca quando, finalmente innamorata di lui, ha dovuto rimanere salda nel suo sentimento di fronte ai figli che le chiedevano: non ti bastiamo noi? Hai dimenticat­o papà? «Ho spiegato loro che ci sono tanti amori, che uno non esclude tutti gli altri». La stessa cosa me l’ha detta Anna Rita, che ha perso Danilo da 10 anni, ma ha trovato Filippo, vedovo anche lui. È stata lei ad accompagna­re il figlio di Filippo all’altare. Irrituale per uno sposo, ma pieno di significat­o, per dire a tutti che certi vuoti non li colmerà mai nessuno, ma che la vita ti regala persone con cui continuare a fare pezzi di strada. Anna Rita mi dice che non lo sa bene che cosa sia l’amore che viene dopo il dolore, se sia proprio lo stesso sentimento o abbia un sapore leggerment­e diverso. Ma sa per certo che da quando c’è Filippo il mondo ha cambiato colore.

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