Vanity Fair (Italy)

Punto all’eternità

«Perché da solo, quando sono a casa mia, sto benissimo». Storia di un crooner romano che, dopo il trionfo di critica del suo primo disco, si prepara al secondo. «Punto in alto e ambisco all’eternità: perché magari non ci riesci, ma provarci è un dovere»

- di MALCOM PAGANI foto BEATRICE CHIMA

Il tempo aggiunge sempre falsi ricordi perché, dice Franco, «la memoria è sempre consolator­ia e modificare il ricordo è un esercizio di sopravvive­nza». Con il suffisso di una vecchia Fiat ad accompagna­re il nome, Franco126 conosce le strade per perdersi, gli scalini nascosti che separano i quartieri e uniscono i dialetti, il modo di non farsi notare: «Da solo, a casa mia, nel mio mondo, con la porta chiusa, sto benissimo» e il segreto per cercare le parole. Ha un telefono in cui le annota accumuland­o concetti, frasi rapite dal quotidiano: «Il derby finisce in pareggio», schegge e frammenti di un discorso amoroso che dopo anni di collettivi­smo e duetti, hanno prodotto un disco da solista, Stanza singola, di un consolante anacronism­o e di una bellezza così legata alla nostalgia da far dubitare dell’età. «Ho ventisette anni». Franco126 si chiama Federico. Nuota, dorme fino a tardi, mangia di gusto in apparente contraddiz­ione con la sua magrezza. Quando una cosa gli piace, dice «Mi fa volare». Quando parla di ragazzi e ragazze sibila alternativ­amente «i pischelli» o «le pischelle» e con i suoi amici, quelli di ieri, quelli di sempre, scompone l’ordine semantico in «gli amici miei». Se si perde nelle sue fughe da fermo, se immagina, se si astrae con i suoi pensieri accarezza la metafora: «me parte la nave». Roma è il suo centro: «Non amo viaggiare, i miei mi hanno portato in capo al mondo per anni, la valigia in mano non mi restituisc­e nessuna ispirazion­e». È cresciuto a Trastevere. Controlla le emozioni. È umbratile e ride parcamente, ma avverte: «Anche se ho un mio lato oscuro, provo sempre a dire un sacco di cazzate e non sono un piagnone». Ha un padre, una madre e un fratello filosofo «che insegna all’università » e gli dà «consigli importanti».

Che tipo di consigli?

«È uno dei primi a cui faccio ascoltare le mie canzoni e uno dei pochi che mi fa notare quando mi ripeto. E io mi ripeto spesso».

E cos’altro fa?

«Cerco parole. Il lusso della parola me lo ha insegnato il rap. Le parole hanno un gusto. Alcune sono belle, altre brutte, alcune vanno bene in un contesto, altre molto meno. Prima ho imparato a fare il rapper e solo dopo, quando ero padrone di quella cosa, mi sono concentrat­o su altro, a partire dalle melodie. In quelle note sul telefono che le ho fatto vedere accumulo i termini più diversi. Potrebbero tornare utili o essere soltanto monnezza, ma anche nella monnezza, se cerchi, c’è qualcosa di luminoso».

Lei legge molto?

«Fino all’adolescenz­a pochissimo. Poi ho iniziato. Leggere mi aiuta a trovare concetti, a nutrirmi di esempi, a scrivere».

Birra e occasioni sprecate, porte di vagoni del metrò che si chiudono all’improvviso dividendo gli amanti, tasche in cui si trovano solo guai, ultimi giorni d’estate. Il tono di Stanza

singola è scuro, quasi notturno.

«Non ci avevo mai pensato, ma effettivam­ente il mio disco ha un’ambientazi­one notturna. È inquieto e scuro come i cieli che descrivo. Le cose le immagino di notte. Forse perché non dormo tanto e vivo quando gli altri vanno a letto, forse perché ho un timbro di voce non luminoso e un po’ crepuscola­re che ti porta più facilmente in una atmosfera notturna o forse soltanto perché ho passato tanto tempo per strada sotto i lampioni con i miei amici».

Che facevate sotto i lampioni?

«Quello che fanno i pischelli: perdevamo tempo. Qualche birra, qualche canna. Io non mi sono mai drogato tanto, però gli amici miei fumavano parecchio. Le ho anche provate un po’ le droghe, ma non mi piacciono, non sono portato. Ho scoperto subito che non le reggevo, che avevo reazioni strane ed era meglio evitare. Così ho fatto sport, tantissimo sport. Cuffie, piscine, vasche. Tantissime vasche».

Cosa ricorda dell’adolescenz­a?

«È quel periodo della vita in cui non sai bene che fare, sei sbattuto per strada e cerchi di barcamenar­ti. Io ho provato a studiare, ma non ero capace e provà a studià senza esse capaci era frustrante. Poi ho cominciato a lavorare e ho fatto un po’ di tutto, ma erano lavori poco appaganti e transitori. Il giardinier­e, il cameriere, il riparatore di cellulari. Una cosa in realtà facilissim­a, basta avere le dita piccole, le dita affusolate, quasi da pianista».

Le ragazze che ruolo avevano?

«La nostra comitiva era principalm­ente maschile. C’era molto cameratism­o e il forte sospetto che le ragazze dividesser­o, creassero equivoci e conflitti, rovinasser­o l’idillio».

Ha avuto un’infanzia felice?

«Se devo dire la verità, non particolar­mente. I miei si sono separati quando ero pischello, a 14 anni. Mamma, una donna scissa tra cupezza e allegria, insegna all’università. Papà invece lavorava all’estero e viveva tra Copenaghen, Ginevra e Bruxelles. Lo vedevo solo nel fine settimana».

Si sono separati tardi i suoi.

«L’hanno tirata per le lunghe perché se non stai tutto il giorno a casa i nodi vengono al pettine più tardi. Ma non voglio fare la vittima: non solo non mi è mai mancato niente, ma non è che sia malinconic­o perché i miei hanno trascinato la loro relazione per anni. Il mio modo di essere è il mio modo di essere. Non dipende dagli altri».

Lei è malinconic­o?

«La malinconia fa parte di me, ma non mi aiuta a scrivere. Tendenzial­mente sono molto allegro, cerco di ridere, di essere leggero, positivo, sorridente. Ma esattament­e come adesso sto bene da solo, anche l’allegria ha rappresent­ato un

Cosa facevamo da ragazzi? Quello che fanno tutti: perdevamo tempo tra una birra e un’altra

percorso. Ci sono arrivato. Non è stato un automatism­o. Poi ora me sta a dì parecchio bene e se mi lamentassi sarei un ingrato e un coglione. Mi alzo quando voglio, mangio al ristorante quando lo desidero, non ho problemi di soldi, guai o drammi sottotracc­ia e campo con la musica. È meraviglio­so».

Se lo sarebbe mai immaginato?

«Francament­e no. Ho sempre avuto un approccio nerd alle cose. Mi incuriosiv­o, le studiavo, approfondi­vo. Mi piacevano i computer, stavo sempre a smanettare. Poi sentendo il rap mi sono avvicinato alla scena romana di allora. C’erano gruppi di rottura, gente che inventava e componeva cose molto interessan­ti, poco canoniche, originali. Mi sono avvicinato alle crew dopo il liceo scientific­o, la laurea non era per me».

Originale è Stanza singola. Dentro pulsano tante cose. È un disco sull’amore irrisolto?

«Sicurament­e ho avuto le mie storie d’amore che in quella direzione, l’irresolute­zza, andavano. Ma in realtà nel disco volevo comunicare solitudine e senso d’abbandono e non tanto la storia d’amore finita male o la fidanzata che ti ha lasciato. Sarebbe stato riduttivo. L’amore è un mezzo per portarti in una dimensione. Nelle canzoni non parlo mai di relazioni, ma assemblo sensazioni. L’amore è fatto soprattutt­o di quelle. E poi nell’amore entrano tante altre cose: le tue mancanze, la necessità di mettere toppe ai propri buchi, l’impotenza, il non sentirsi mai al proprio posto».

Non sentirsi al proprio posto è una sensazione che conosce?

«È un po’ come sono io. Un insoddisfa­tto, uno super perfezioni­sta, uno che pensa che le cose si potrebbero fare sempre meglio, uno che è sempre in ansia per il futuro o per le cose che non vanno».

Cosa le provoca ansia?

«Per esempio il nuovo disco. Adesso che me invento? Mi fa molta paura. Devo andarci a cazzo duro e a testa bassa. Ho delle idee, delle cose pronte. Ma fare un disco, se non lo vuoi buttare, non è facile. Devo capire come impostarlo e pur mantenendo una traccia del mio primo album per sound e scrittura, deve essere diverso da quello. Per me fare un passo più in là è importante, non solo per il gusto della sfida. È sempre difficile essere all’altezza delle proprie aspettativ­e, soprattutt­o quando sono alte».

Le sue sono alte?

«A costo di apparire mitomane, altissime. Cerco di fare cose che rimangano e di ambire all’eternità, altrimenti non avrebbe senso. Se punti al cielo, non puoi stare in una via di mezzo. Poi non è detto che ci arrivi, ma intanto ci devi provare».

Chi ci provava tra i suoi modelli?

«Franco Califano. Per me, il migliore di tutti. Califano stava per strada, passava la notte in giro, era il re dei disperati. Avendolo additato come tossico per decenni, non si può certo dire che gli sia stata riconosciu­ta la grandezza che meritava e infatti si è dovuto sbattere fino all’ultimo e ha continuato a suonare fino alla fine perché non aveva una lira. Stava con le pezze al culo, ma era un uomo libero: persino troppo. Lui, De Gregori e Dalla sono i miei preferiti. Dalla, anche negli album minori, arrangiava come un dio e scriveva meglio».

C’era poesia in quei testi?

«Tanta. In 1983 c’è una canzone quasi sconosciut­a, L’altra parte del mondo, in cui dipinge un adolescent­e così: “Vogliam parlare per un attimo di quelli come Andrea/ che a 16 anni sanno tutto della vita/ la vivono in silenzio e in apnea/ e col sorriso sulle labbra, in una piazza di Trastevere mi dice, aho’ la vita è cominciata ed è già finita”. Non è pazzesca?».

Oggi chi le piace?

«Chiunque riesca a portarmi in un immaginari­o. Una canzone buona può capitare a tutti, ma il talento di farti viaggiare in un mondo ben riconoscib­ile che non sia il tuo è di pochi».

Chi lo possiede?

«Giorgio Poi e, per altri versi, Tommaso Paradiso. A trascinart­i nel suo immaginari­o, Tommaso ha un talento veramente speciale».

Califano diceva: «Sono stato sveglio cinque minuti in più degli altri per poter raccontare cinque minuti in più».

«Fichissima ’sta cosa. Certe ispirazion­i nascono dalla disperazio­ne: dalla tigna che metti in alcune circostanz­e. Califano ce l’aveva».

Sente ancora il vento passare tra le sue dita?

«Lo cerco. Se una cosa emoziona me, è possibile che emozioni anche gli altri. Quindi lo inseguo quel vento, esattament­e come rincorro le emozioni».

Che rapporto ha con l’invidia?

«La competizio­ne esiste ed esiste anche l’invidia. L’ho provata anche io. È un sentimento: negarlo non aiuta a eliminarlo».

Cosa la aiuta a creare?

«Ho bisogno di serenità. E di metodo. La creatività si allena. Non c’è solo l’ispirazion­e, non scrivo le mie canzoni di getto».

E cosa fa di getto?

«Mi mangio una puntarella. La prende anche lei? Fa volà, glielo giuro».

 ??  ??
 ??  ?? CANZONI E POESIA
Federico Bertollini, 27 anni, romano. Dopo l’esordio in coppia con Carl Brave, Bomba Dischi con la distribuzi­one di Island Records ha prodotto il suo esordio da solista, Stanza singola, uscito a inizio anno.
CANZONI E POESIA Federico Bertollini, 27 anni, romano. Dopo l’esordio in coppia con Carl Brave, Bomba Dischi con la distribuzi­one di Island Records ha prodotto il suo esordio da solista, Stanza singola, uscito a inizio anno.
 ??  ?? 10 PEZZI NON FACILI
La copertina di Stanza singola. Il primo album da solista di Franco126, 10 canzoni in tutto, è uscito esattament­e 11 mesi fa.
10 PEZZI NON FACILI La copertina di Stanza singola. Il primo album da solista di Franco126, 10 canzoni in tutto, è uscito esattament­e 11 mesi fa.
 ??  ?? LA BELLEZZA DELLE PAROLE
«Le cerco ovunque, le segno, le annoto su un telefono. Alcune sono immondizia, altre diventano una canzone».
LA BELLEZZA DELLE PAROLE «Le cerco ovunque, le segno, le annoto su un telefono. Alcune sono immondizia, altre diventano una canzone».

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy