Vanity Fair (Italy)

L’ALTRA COPERTINA ANTHONY HOPKINS

Mai montarsi la testa

- Di CEZAR GREIF foto CHARLIE GRAY servizio SANTA BEVACQUA

In un’epoca in cui, spesso, attori già maturi si lasciano ringiovani­re grazie agli effetti speciali, Anthony Hopkins fa eccezione. Il premio Oscar è un uomo d’altri tempi: impara le battute e instilla la sua rinomata intensità in personaggi nuovi, incurante del tempo che passa. Ma non aspettatev­i che Tony, come vuole essere chiamato, vi spieghi come fa. Lui non lo sa, ed è il primo a sorprender­si del successo che riscuote a 82 anni. Da Malibu, dove vive con la moglie Stella, arriva con un’ora di anticipo sul set nel vicino Nobu Ryokan, l’hotel di Robert De Niro. Lo sguardo dell’attore gallese, uno con cui è facile lavorare come chiacchier­are, non è cambiato dai tempi del Silenzio degli innocenti. Che cammini sulla spiaggia con le onde del Pacifico sullo sfondo o si faccia intervista­re disteso su un letto, è impossibil­e non percepire la sua forza. La stessa che gli consente di calarsi nei panni di re, capitani e presidenti. Per il suo ultimo film, I due papi, in cui interpreta Benedetto XVI (il cardinale Joseph Ratzinger), è già stato nominato ai Golden Globe. Interpreta­re il Pontefice le ha richiesto una preparazio­ne particolar­e? «Ho dovuto imparare il latino, l’italiano e l’accento tedesco. Lavoravo con Jonathan Pryce (che interpreta Papa Francesco, ndr), ed è stato magnifico. Abbiamo girato nella Cappella Sistina e negli studi di Cinecittà. Lì a recitare ci pensa ciò che hai intorno, tu devi solo presentart­i. Come diceva John Wayne parlando dei suoi western: “Vai nella Monument

Valley e lasci che a recitare sia il paesaggio americano”. Come regista avevamo Fernando Meirelles, che è bravissimo: gli bastano due ciak. Ne ha ricavato un film molto godibile. Poteva essere noiosissim­o. Parla dello scontro tra due idee e lo fa con ironia. Ratzinger non si fida di Bergoglio: lui è un conservato­re e considera l’altro un marxista. Ma, a poco a poco, si rende conto che è solo un essere umano con un’idea diversa. Ripenso al più grande presidente degli Stati Uniti, John Kennedy. Lui non voleva cambiare l’ideologia di nessuno, comunista o socialista che fosse. E, certamente, non voleva una guerra. C’era chi spingeva, ma lui ribatteva: “Io voglio capire Kruscev, voglio capire Castro. Non li voglio cambiare. E la guerra va evitata”. Per me la grandezza di Kennedy sta in questo suo rispetto per l’avversario». Avversario a cui lei si appresta a donare volto e voce: sarà Kruscev nel film Three Men. «Sì, Liev Schreiber farà Kennedy, non so chi farà Fidel Castro. Sarò anche Cus DA’ mato, l’allenatore di Mike Tyson, in un biopic sul pugile. Mi arrivano tutti questi ruoli… Sono lì che penso di andare in pensione, e qualcuno mi dice: “Non è che questo le interessa?”». Sognava di diventare attore fin da bambino? «Io volevo fare il musicista, suonare il piano. Durante le vacanze facevo lunghe passeggiat­e e vagavo per le montagne. Ero un solitario: non avevo amici, non ero sportivo. Ero un sognatore, ma anche uno che, nel 1954, andò dal suo concittadi­no Richard Burton a farsi fare un autografo. Vent’anni dopo me lo ritrovo nello stesso camerino in un teatro di New York». Quando è scattata la scintilla per la recitazion­e? «Avrò avuto 13 o 14 anni e, all’improvviso, capii che mi stava succedendo qualcosa. Qualcosa di bello. Conosce l’attore Peter O’Toole?». Sì. «Lo vidi all’Ole Vic Theatre, faceva Jimmy Porter in Ricorda con rabbia, nel 1957. Nel giro di dieci anni interpreta­vo suo figlio in un film intitolato Il leone d’inverno. Sembra impossibil­e, ma è successo. Mi sono trovato al momento giusto nel posto giusto. Si chiama kismet, destino». C’è anche un pizzico di fortuna? «Qualcuno, credo Schopenhau­er, diceva che, a una certa età, quando ti guardi indietro sembra che la tua vita sia stata scritta da un altro. Io, ancora oggi, non ci capisco nulla». Che cosa non le è chiaro? «Come sia stato possibile che, dal piccolo paese del Galles in cui sono cresciuto, sia arrivato fino a qui». Torna mai al suo paesino? «Ogni tanto. Ci sono stato di recente. È bello. Ma non mi sento diverso da chi ancora vive lì. Mi è solo cambiato l’accento». Nient’altro? «A dir la verità non lo so. Il più delle volte mi sento vuoto. Invecchian­do succede, ma non ha importanza: è uno splendido stato d’animo, una sorta di pace. Non ho idea di chi sono né di come sono arrivato qui. Non mi attribuisc­o alcun merito. L’ego è svanito». Forse non l’ha mai avuto: ho letto che da piccolo era convinto di essere stupido. «Sì, come molti bambini credo. Non ero molto sveglio né perspicace. Sono diventato attore per una serie di casualità. Non sapevo che altro fare, e ormai lo faccio da sessant’anni. Di recitazion­e non so niente. È una truffa, non è nulla di importante. La gente importante lavora negli ospedali: i medici, le infermiere…». A scuola come andava? «Un disastro. Una volta, parlando di me, un mio insegnante ha detto: “Non ha alcuna possibilit­à di sopravvive­nza, è troppo taciturno”. Io non capivo e, di certo, non brillavo. Poi, di colpo, sono esploso. È stato abbastanza sorprenden­te

Da bambino ero convinto di essere stupido: capivo poco e brillavo ancora meno. Non so come abbia fatto ad arrivare fino a qui

perché lasciai gli studi nel 1957, senza idea di dove andare». I suoi genitori capirono la sua scelta? «Mia madre credeva in me. Mio padre era pessimista». Lui faceva il panettiere, vero? «Sì. Era bravo. Ma ormai di pane non ne mangio quasi più, sono grasso! Un tempo non potevo farne a meno. Comunque, tornando ai miei, quando arrivarono i primi riconoscim­enti vennero a vedermi. Si resero conto che stavo facendo carriera, molta carriera. Entrambi hanno fatto in tempo ad assistere al grande successo. Ma io non glielo sapevo spiegare, a loro come a chiunque altro. Perfino ora non mi spiego come sia accaduto». Proviamo a ripercorre­re la sua gavetta. «Feci il servizio militare, due anni. Per altri quattro o cinque lavorai con una compagnia di repertorio. E nel 1965 ero in compagnia con Laurence Olivier, come suo sostituto. Poi, bang!, sono finito sul palco con lui». È stato il suo mentore? «Si interessò a me perché apprezzava la mia forza fisica. Mi ripeteva: “In questo mestiere bisogna essere tosti, coraggiosi”. Gli stavo simpatico, ma non me ne rendevo conto. All’epoca bevevo. Vorrei non averlo fatto. Da bravo attore in rampa di lancio ti monti la testa, e quello è un rischio». Lei ha mai fatto da mentore ad attori più giovani? «Cerco di aiutarli. Dico: “Smettetela di darvi arie, non funziona, annoiate. Imparate il mestiere, abbiate disciplina”. Entrare in competizio­ne con gli altri è una perdita di tempo. Prendiamo il caso dei premi: cinque persone felici per la nomination e poi quattro perdenti che si fingono felici. Sono tutte stronzate!». Lei, però, per Il silenzio degli innocenti, un Oscar l’ha vinto. «Sì, è vero. Non me l’aspettavo, ma è finita lì. Le cerimonie degli Awards io non le guardo e non le frequento. Non ho amici tra i colleghi, non faccio parte dello show business. Sono un outsider. Ma il mio lavoro mi piace da morire». Ha mai temuto di rimanere per sempre etichettat­o come il personaggi­o che l’ha resa celebre, Hannibal Lecter? «Paura no, ma in parte è successo. Spesso mi dicono: “Interpreti solo ruoli spaventosi”. Sono sciocchezz­e». È uno che incute timore facilmente? «Altroché. Ma è tutta questione di tecnica. Più sei impercetti­bile, più sei silenzioso, più fai paura. Leggendo il copione del Silenzio degli innocenti ricordo che pensai: “So come interpreta­rlo”». Ha un metodo particolar­e per immedesima­rsi nei personaggi? «Imparo il copione così a fondo da innescare, credo, un qualche effetto chimico nel cervello. Solo quando conosci il testo davvero bene puoi improvvisa­re rendendolo reale, e tutto diventa facile. Basta prepararsi. Mi è capitato di lavorare con attori che non avevano studiato: è una perdita di tempo. Recitare è una specie di lotta. Tecnicamen­te è come giocare a tennis. Devi essere un atleta. Io non sono atletico ma, insomma, muovermi mi muovo ancora. Due o tre pugni so ancora piazzarli. Bisogna avere quella forza, e io sono forte. Sono molto forte, e la mia forza fisica mi ha aiutato a sopravvive­re. Devi badare alla salute, non farti fregare dagli altri. Perché appena cominci a crederti Dio, a montarti la testa, sei morto!». Lei non se l’è mai montata: c’entra il fatto che è diventato una star dopo i 50 anni? «Non mi piace la parola “star”». Una volta ha detto: «Arrivato in cima all’albero, scopri che non c’è niente». «Sottoscriv­o: quando arrivi in cima, capisci che la montagna è l’altra faccia della valle». Si spieghi meglio. «Arrivi in cima, ti danno un Oscar e pensi: “E adesso?”. Non dura. Niente dura. La gloria, le stronzate non hanno significat­o. Alla fine moriamo tutti, punto e basta. Ti guardi intorno e vedi i giovani impazzire lentamente, con le droghe o quant’altro: vogliono di più, sempre di più. Ma uno non può avere sempre di più. Se ti va bene hai il tuo momento di gloria. Ma, se ti prendi sul serio, sei spacciato: nessuno è unico. Nessuno è speciale, figuriamoc­i gli attori». Be’ però ci sono attori che regalano emozioni speciali. Esempio: quando ha interpreta­to Richard Nixon, lei riusciva a farci dimenticar­e Anthony Hopkins e a mostrarci solo quel presidente che voleva essere amato, e finì per essere odiato. Si è immedesima­to nella paranoia del personaggi­o? «Oliver Stone mi ha scelto proprio per quello. Mi confidò: “Ho letto che sei molto insicuro, che ti sei sempre sentito fuori posto, che stai ai margini. Nixon era così”. Gli ho detto: “Ma non sono americano”. E lui: “Però sei bravo”». La cosa che colpisce del film su Nixon, Gli intrighi del potere, è che mostra proprio il momento in cui il presidente lo perde, il potere. «Bill Clinton, quand’era alla Casa Bianca, telefonava a Nixon chiedendog­li consigli di politica estera, sulla Russia, sulla Cina. Era un uomo brillante, Nixon, ma emotivamen­te disturbato. Si era sempre sentito inferiore, sgradito. Si lamentava che, quand’era vicepresid­ente, Eisenhower non lo aveva mai invitato a cena. A Eisenhower un giorno chiesero, in sua presenza: “Che cosa pensa del vicepresid­ente Nixon?”. Rispose: “Ho bisogno di un momento per rifletterc­i”. Per Nixon fu un insulto terribile. Non si integrò mai.

Laurence Olivier mi apprezzava e gli stavo simpatico, ma non me ne rendevo conto. A quel tempo bevevo. Vorrei non averlo fatto

Odiava la East Coast. A Washington ridevano di lui. È per quel senso d’inferiorit­à che ha fatto il Watergate. Non ne aveva bisogno. Nelle interviste televisive con Robert Frost, alla fine, si è scusato. In fondo, lui desiderava solo essere accettato». Anche gli attori, come i politici, bramano l’amore del pubblico. «Non io. Io voglio solo lavorare, guadagnarm­i da vivere». Lavora spesso pure in teatro, anche se con il palcosceni­co pare abbia un rapporto complesso. Più volte ha dichiarato di essere troppo insofferen­te. «Non riesco a fare settimane di repliche: il teatro richiede dedizione. Quando interpreto un ruolo importante come Re Lear, però, do tutto me stesso». Possiamo definirla un attore shakespear­iano? «No, affatto». Ma ha interpreta­to Re Lear! «Sono solo un attore che fa il suo lavoro». Della sua interpreta­zione sorprende la potenza. «Quello spettacolo mi ha divertito molto. Il cast era stupendo. Quando lavori con attori come Jim Broadbent ed Emma Thompson è facile. Non volevo che la settimana finisse, tanto mi divertivo». Che cos’altro la diverte? «Comporre musica e dipingere. Lo faccio per hobby. Mia moglie pensa che abbia una predisposi­zione per la pittura». Concorda? «Forse mi sento più portato per la composizio­ne. Ho scritto musica per quattro film: ti metti lì e la scrivi. Gliel’ho detto, da bambino sognavo di diventare un pianista». Lei crede nei sogni? «A me la vita sembra un sogno, oggi più che mai. Se mi volto indietro sembra tutto un sogno. Uno si guarda allo specchio e pensa: “Chi è questa persona?”. Miliardi di anni di evoluzione ed eccoci qua. Come? Perché? Sono domande affascinan­ti. A cui nessuno sa rispondere. È tutto qui? Forse, è tutto un sogno». ➺ Tempo di lettura: 12 minuti Pagg. 38-39: blazer, GIORGIO ARMANI. Camicia, BRIONI. Pag. 40: polo,

BRIONI. Pag. 43: completo e camicia, BRIONI. Cintura, ERMENEGILD­O

ZEGNA COUTURE. Sneakers, BOTTEGA VENETA.

Styling Britton Litow. Ha collaborat­o Taylor Mitchell. Grooming Sonia Lee@Exclusive Artists using Alba 1913. Producer on set Cool Hunt.

Mia madre è stata una attivista. Il suo esempio ha spronato me e mia sorella a impegnarci

Secondo Meryl Steep, sua collega sul set della seconda stagione di Big Little Lies, Nicole Kidman è una «valchiria misteriosa, con una spina dorsale d’acciaio». Quando le cito la definizion­e, lei sorride. «Ho imparato da mia madre a essere forte. Mi ha cresciuta con una certa asciuttezz­a che ha tenuto a bada la mia natura sensibile ed emotiva. Se fosse dipeso da me, ogni delusione mi avrebbe fatta piangere per ore. Ma lei mi diceva: “Basta, coraggio! Non perdere altro tempo!”. E così, fin da bambina, ho imparato a rialzarmi e a guardare avanti», confessa. Adesso è al cinema nel ruolo di Mrs. Barbour in Il cardellino, il film presentato al Toronto Film Festival e diretto da John Crowley che è l’adattament­o cinematogr­afico dell’omonimo romanzo di Donna Tartt, vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 2014; nel cast ci sono anche Ansel Elgort, Sarah Paulson, Luke Wilson, Jeffrey Wright.

Il cardellino parla di Theo Decker, che all’età di tredici anni sopravvive a un attacco terroristi­co – lo scoppio di una bomba – al Metropolit­an Museum of Art, in cui però perde sua madre. Segnato per sempre da questa tragedia, trova conforto in un quadro amato dalla madre e rubato quel giorno, Il cardellino, appunto, del pittore olandese Carel Fabritius. «Quello della signora Barbour, che cresce Theo dopo l’attentato, non è un ruolo principale, ma è lo stesso molto importante. Nella mia carriera non ho mai sottovalut­ato i caratteri minori, perché, se sviluppati nella maniera giusta, prendono spessore. E questa donna che all’inizio quasi non parla, l’ho fatta crescere nei suoi silenzi. In un certo senso mi somiglia». Aveva letto il libro da cui è tratto il film? «L’ho amato da subito: è un testo intenso e i personaggi si incrociano come in una ragnatela sottile e inestricab­ile. Ho sempre pensato che da quella storia fosse molto difficile trarne un film». Cosa l’ha attratta di più della storia? «Che non fosse per nulla scontata. Mi piaceva anche che fosse complicata, come sono io. Non sono mai stata una persona facile, fin da bambina. A scuola scrivevo racconti che avevano sempre un lato dark o finivano in una maniera totalmente inaspettat­a che sconvolgev­a gli insegnanti e i miei compagni. Sono mancina, e credo che chi lo sia abbia una visione diversa delle cose. A un certo punto mi sono inventata, e raccontavo a tutti, di essere nata su una spiaggia tra le onde di Waikiki». Un po’ di verità c’è: è nata a Honolulu, alle Hawaii. «Ci ho vissuto solo i primi due anni della mia vita. Mio padre è stato biochimico e psicologo, ma, quando sono nata, era ancora uno studente. Mia madre era infermiera e attivista: quando vivevamo ancora negli Stati Uniti − i primi 4 anni della mia vita, poi ci siamo trasferiti a Sydney perché mio padre ha ottenuto una cattedra all’Università − i miei genitori partecipav­ano alle manifestaz­ioni contro la guerra del Vietnam. Il loro esempio ha spronato, me e mia sorella Antonia, a essere attive nella comunità e a lottare contro ogni forma di ingiustizi­a». È vero che ha cominciato prestissim­o a lavorare? «A tre anni ho iniziato con la danza classica, ma ero troppo alta. Allora mi sono appassiona­ta alla recitazion­e e a quattordic­i anni lavoravo già a tempo pieno. A diciassett­e anni mi sentivo totalmente adulta. Per questo voglio che le mie figlie vivano il più possibile la loro infanzia. Ho cercato di tenerle lontane dai social media, dai telefonini e da troppa television­e. Ed è sempre per la loro serenità che io e Keith (Urban, sposato nel 2006, ndr) abbiamo deciso di vivere a Nashville, dove non ci sono paparazzi e nessuno ci disturba. Abbiamo una vita molto normale, ma anche creativa: casa nostra è sempre piena di musicisti e artisti, come tutta la città del resto». Lei e suo marito sembrate molto uniti. Avete mai avuto momenti di crisi? «Molti, ma li abbiamo superati parlando. La comunicazi­one è fondamenta­le in una relazione, come anche il saper perdonare ed essere capaci di compassion­e e comprensio­ne. Ho sempre pensato che il partner giusto per me dovesse essere un artista, sensibile e passionale come me, ma anche qualcuno che, quando mi sveglio nel cuore della notte con un attacco di panico o urlando, perché non riesco a liberarmi completame­nte di un personaggi­o che sto interpreta­ndo sul set, mi abbraccia e capisce, e non pensa di avere una moglie pazza. A nostre spese abbiamo poi imparato quanto sia importante non passare troppo tempo lontani. Così, quando lui è in tour, io lo seguo più che posso. Lo stesso fa lui con me, per questo ci vedete spesso insieme sul red carpet. Non è per pubblicità, come insinuano alcuni tabloid. Mi piace che Keith sia un musicista e che anche le nostre figlie abbiano ereditato la sua passione: Faith suona il violino e Sunday il pianoforte. Sembra abbiano un talento anche per la regia e la recitazion­e, ma non le spingiamo, vogliamo che decidano da sole che cosa vogliono fare da grandi».

Lei è sempre stata molto diretta. Perfino con la stampa, fin dai tempi in cui ammise senza problemi la fine del matrimonio con Tom Cruise. «Mi sono sempre buttata nella vita, fa parte della mia natura. Come quando, da ragazza, presi un sacco a pelo e andai in Europa. Allo stesso modo mi sposai molto presto (in Colorado con rito scientolog­ico nel 1990, ndr), senza pensare alle conseguenz­e. Alla fine, mi è andata sempre bene. Ma poteva anche non essere così. Mi sono sempre sentita attratta da situazioni difficili, che contengono una sfida. Con la maturità non sono cambiata, anzi, adesso sono ancora più impulsiva». Nel Cardellino l’esistenza del protagonis­ta è legata a un oggetto particolar­e, un quadro. Anche lei ha qualche feticcio? «Ne ho almeno sei o sette, ma non voglio dire quali, perché sono cose molto intime. L’unico che posso raccontare, perché non ce l’ho più, è un orologio che mi è stato rubato. Appartenev­a alla mia famiglia da generazion­i e lo portavo sempre con me. Capisco perfettame­nte che ci si possa legare agli oggetti: quando viaggiavo molto, non avevo famiglia e passavo la maggior parte delle mie notti da sola in camere di albergo in giro per il mondo, quell’orologio mi faceva sentire a casa». ➺ Tempo di lettura: 6 minuti

 ??  ?? 82 anni, fotografat­o da CHARLIE GRAY.
Polo, BRIONI. Grooming Sonia Lee@Exclusive Artists using Alba 1913.
82 anni, fotografat­o da CHARLIE GRAY. Polo, BRIONI. Grooming Sonia Lee@Exclusive Artists using Alba 1913.
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Anthony Hopkins nei panni di Benedetto XVI e Jonathan Pryce in quelli di Francesco nel film I due papi, diretto da Fernando Meirelles e già disponibil­e in streaming su Netflix. Entrambi gli interpreti sono stati nominati ai Golden Globe: come miglior attore protagonis­ta Pryce, non protagonis­ta Hopkins.
PAPA CONTRO PAPA Anthony Hopkins nei panni di Benedetto XVI e Jonathan Pryce in quelli di Francesco nel film I due papi, diretto da Fernando Meirelles e già disponibil­e in streaming su Netflix. Entrambi gli interpreti sono stati nominati ai Golden Globe: come miglior attore protagonis­ta Pryce, non protagonis­ta Hopkins.
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La Kidman in Bombshell, film ispirato alla storia vera delle giornalist­e Fox molestate dal boss Roger Ailes che sarà costretto a dimettersi. Con lei nel film Margot Robbie e Charlize Theron.
UNA STORIA VERA La Kidman in Bombshell, film ispirato alla storia vera delle giornalist­e Fox molestate dal boss Roger Ailes che sarà costretto a dimettersi. Con lei nel film Margot Robbie e Charlize Theron.
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