Vanity Fair (Italy)

ESHKOL NEVO Vienna

- A Richard Linklater

Si era allontanat­a di qualche metro perciò lui non riuscì a udire il contenuto della conversazi­one con il marito, ma percepì comunque il tono. Profonda delusione. Prossima alla rabbia. Quando lei si riavvicinò, le chiese se andava tutto bene. Lei rispose di sì. Eppure, il cambiament­o era evidente. Lavoravano nello stesso ufficio da ormai due anni, adesso visitavano insieme l’Expo da tre giorni e lui pensava di conoscere tutte le sfumature espressive della sua capa. Ma così non l’aveva mai vista. Agitata. Smarrita. Persino i capelli, sempre perfettame­nte acconciati grazie a mollette lucide, sparavano da tutti i lati. Lei fissava l’orologio, poi lui notò che il suo sguardo si era posato sul display dei voli. E poi spostato al cartello che spiegava che un tram chiamato CAT portava dall’aeroporto al centro città in soli diciassett­e minuti.

«Sei mai stato a Vienna?», gli chiese, e nella voce restava ancora un’eco di tremito.

«No», confessò lui.

«Il nostro prossimo volo parte solo fra tre ore, lei lanciò una seconda occhiata all’orologio. È un po’ una follia, ma se prendiamo questo CAT abbiamo il tempo di berci un bicchiere di vino in centro e ritornare».

«Perché no», rispose lui.

*

In treno lei gli si sedette di fronte. I capelli sciolti. Le ginocchia che sfioravano le sue.

Si domandò se fosse il caso di interrogar­la sulla telefonata con il marito, ma temeva che se l’avesse fatto quel qualcosa di fragile sarebbe andato definitiva­mente in pezzi.

«Grazie», disse lei. Accompagna­ndo le parole con il più vulnerabil­e dei sorrisi. Non glielo aveva mai visto prima. «Di cosa?», domandò lui.

«Di aver accettato», rispose lei.

«Sei la mia capa, non avevo gran scelta», pensò di dire. Ma poi non gli parve il caso.

In effetti, si ricordò, quel sorriso vulnerabil­e l’aveva già visto una volta. Durante il colloquio per l’assunzione. Lui aveva detto qualcosa sul fatto che nel curriculum si ingigantis­ce ogni piccola cosa fatta. E lei aveva sorriso. E per un attimo fra loro si era aperta una fessura di luce che lei si era precipitat­a a richiudere. E mai più, in tre anni di riunioni, presentazi­oni e visite ai clienti, aveva riaperto.

Lui a volte cercava di fantastica­re su di lei prima di dormire, soprattutt­o se quel giorno al lavoro portava la gonna, ma non era mai riuscito a costruire una trama abbastanza realistica da coinvolger­lo veramente.

*

Adesso lei ordinò quattro calici di vino rosso. Due per lui, due per lei.

E buttò giù il primo in una sola sorsata.

Erano seduti dallo stesso lato del tavolo, vicinissim­i, a osservare Vienna in silenzio. Una splendida cattedrale di cui non conoscevan­o il nome si levava al di sopra di un palazzo che pareva un museo di qualcosa. Lui evitò di guardare l’orologio per controllar­e quanti minuti gli restavano prima che fosse il momento di tornare indietro. È lei la capa, pensò. Che si assuma la responsabi­lità.

«Senti», lei prese un sorso dal secondo bicchiere e gli lanciò un’occhiata, «ti spiace se ti poso un attimo la testa sulla spalla? Mi ero dimenticat­a che il vino mi fa venire sonno».

«Ma certo», rispose lui. E appiccicò la sua sedia a quella di lei.

Sentì la testa di lei che si posava gentilment­e sulla sua spalla destra. E poi la mano di lei che cercava la sua. Poi le dita che s’intrecciav­ano con le sue.

Dopo diversi minuti durante i quali aveva respirato a fatica, notò il respiro di lei. Silenzioso. Tranquillo. Dormiva.

Con attenzione, lento lento, per non svegliarla, sollevò la mano sinistra e lanciò un’occhiata all’orologio.

Se volevano arrivare in tempo per la coincidenz­a, si rese conto, doveva svegliarla subito.

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