ESHKOL NEVO Vienna
Si era allontanata di qualche metro perciò lui non riuscì a udire il contenuto della conversazione con il marito, ma percepì comunque il tono. Profonda delusione. Prossima alla rabbia. Quando lei si riavvicinò, le chiese se andava tutto bene. Lei rispose di sì. Eppure, il cambiamento era evidente. Lavoravano nello stesso ufficio da ormai due anni, adesso visitavano insieme l’Expo da tre giorni e lui pensava di conoscere tutte le sfumature espressive della sua capa. Ma così non l’aveva mai vista. Agitata. Smarrita. Persino i capelli, sempre perfettamente acconciati grazie a mollette lucide, sparavano da tutti i lati. Lei fissava l’orologio, poi lui notò che il suo sguardo si era posato sul display dei voli. E poi spostato al cartello che spiegava che un tram chiamato CAT portava dall’aeroporto al centro città in soli diciassette minuti.
«Sei mai stato a Vienna?», gli chiese, e nella voce restava ancora un’eco di tremito.
«No», confessò lui.
«Il nostro prossimo volo parte solo fra tre ore, lei lanciò una seconda occhiata all’orologio. È un po’ una follia, ma se prendiamo questo CAT abbiamo il tempo di berci un bicchiere di vino in centro e ritornare».
«Perché no», rispose lui.
*
In treno lei gli si sedette di fronte. I capelli sciolti. Le ginocchia che sfioravano le sue.
Si domandò se fosse il caso di interrogarla sulla telefonata con il marito, ma temeva che se l’avesse fatto quel qualcosa di fragile sarebbe andato definitivamente in pezzi.
«Grazie», disse lei. Accompagnando le parole con il più vulnerabile dei sorrisi. Non glielo aveva mai visto prima. «Di cosa?», domandò lui.
«Di aver accettato», rispose lei.
«Sei la mia capa, non avevo gran scelta», pensò di dire. Ma poi non gli parve il caso.
In effetti, si ricordò, quel sorriso vulnerabile l’aveva già visto una volta. Durante il colloquio per l’assunzione. Lui aveva detto qualcosa sul fatto che nel curriculum si ingigantisce ogni piccola cosa fatta. E lei aveva sorriso. E per un attimo fra loro si era aperta una fessura di luce che lei si era precipitata a richiudere. E mai più, in tre anni di riunioni, presentazioni e visite ai clienti, aveva riaperto.
Lui a volte cercava di fantasticare su di lei prima di dormire, soprattutto se quel giorno al lavoro portava la gonna, ma non era mai riuscito a costruire una trama abbastanza realistica da coinvolgerlo veramente.
*
Adesso lei ordinò quattro calici di vino rosso. Due per lui, due per lei.
E buttò giù il primo in una sola sorsata.
Erano seduti dallo stesso lato del tavolo, vicinissimi, a osservare Vienna in silenzio. Una splendida cattedrale di cui non conoscevano il nome si levava al di sopra di un palazzo che pareva un museo di qualcosa. Lui evitò di guardare l’orologio per controllare quanti minuti gli restavano prima che fosse il momento di tornare indietro. È lei la capa, pensò. Che si assuma la responsabilità.
«Senti», lei prese un sorso dal secondo bicchiere e gli lanciò un’occhiata, «ti spiace se ti poso un attimo la testa sulla spalla? Mi ero dimenticata che il vino mi fa venire sonno».
«Ma certo», rispose lui. E appiccicò la sua sedia a quella di lei.
Sentì la testa di lei che si posava gentilmente sulla sua spalla destra. E poi la mano di lei che cercava la sua. Poi le dita che s’intrecciavano con le sue.
Dopo diversi minuti durante i quali aveva respirato a fatica, notò il respiro di lei. Silenzioso. Tranquillo. Dormiva.
Con attenzione, lento lento, per non svegliarla, sollevò la mano sinistra e lanciò un’occhiata all’orologio.
Se volevano arrivare in tempo per la coincidenza, si rese conto, doveva svegliarla subito.