Vanity Fair (Italy)

MATT DILLON Le mie fragilità

Si era fatto conoscere dipingendo l’immaginari­o selvaggio e sentimenta­le di una generazion­e. A 55 anni, Matt Dillon ha preso a sua volta il pennello in mano per raccontare chi è stato, chi sarà domani e quanto sia stato utile scoprire le proprie fragilità

- di CHIARA BARZINI foto GUY AROCH servizio NICK CERIONI

Forse, avevo soltanto 13 anni, non sarò stata tra le donne descritte da Bridget Fonda nel 1992, che nei bar di Los Angeles saltavano addosso a Matt Dillon cercando di togliergli i pantaloni, ma ho sempre riconosciu­to in lui quel «magnetismo potente e tangibile» con cui Andy Warhol lo descrisse quando gli dedicò una storica copertina di Interview Magazine. Negli anni Ottanta, la storia e il viso di Matt Dillon incarnavan­o le anime di ragazzi selvatici, cresciuti al confine tra vita lecita e degrado. La sua figura raccontava nottate di sonnolenza suburbana e irruzioni violente, irradiava lA’ merica di provincia di luce e poesia. La squadratur­a della mascella, la foltezza asimmetric­a delle sopraccigl­ia nere, i capelli lunghi, i denti davanti rotti a causa di chissà quale litigio. Cresciuto a Mamaroneck, un’ora a nord di Manhattan, con quattro fratelli e una sorella in una famiglia working class di origine irlandese, nella sua primissima adolescenz­a Matt Dillon era già appassiona­to di sigarette, alcol ed erba. La sua vita si consumava per strada, nei parcheggi delle pompe di benzina, facendo a cazzotti con chiunque passasse da lì per generare l’adrenalina che mancava nella quotidiani­tà. Quando un gruppo di talent scout che faceva il casting per Giovani guerrieri, il film del 1979 di Jonathan Kaplan, approdò a Mamaroneck e lo vide vagare per i corridoi di scuola con una gang di bulletti, fu un’apparizion­e. Pochi giorni dopo quell’incontro, Dillon si presentò a NY per il suo primo provino, aveva 14 anni. Diluviava e arrivò in ritardo, fradicio e con la maglietta stracciata, dopo aver fatto a botte. Era talmente perfetto per il ruolo di Richie White che il casting director Vic Ramos annotò sul suo taccuino: «Dovrebbe già essere una star». Quel momento marcò l’inizio di un certo tipo di coming of age maschile al cinema e Dillon divenne l’erede di quella mascolinit­à sofferta e complicata che era già stata interpreta­ta da Marlon Brando e James Dean. La rese contempora­nea reinterpre­tando quell’attitudine rabbiosa, ma profonda e sensibile, con cui ha conquistat­o una miriade di registi: Francis Coppola, Gus Van Sant, Cameron Crowe, Anthony Minghella, Paul Haggis, Lars von Trier. La sua sofferenza ancestrale e interioriz­zata ha retto alla rivoluzion­e digitale e alla crisi della sala cinematogr­afica e oggi, a 55 anni, Matt Dillon è uno dei pochissimi attori che sono riusciti a mantenere la propria rilevanza culturale attraverso i decenni. Le ragazze che nei primi anni ’90 gli saltavano addosso, oggi sono donne di mezz’età, ma lui ha dimostrato di esistere fuori dal tempo. Da piccola sognavo di far parte delle sue nottate da Max’s Kansas City negli anni d’oro di NY. Da adolescent­e immaginavo il suo rapporto con la Seattle dei Pearl Jam. A vent’anni seguivo i racconti delle sue lunghe cene allo Chateau Marmont e da Musso & Frank Grill quando era fidanzato con Cameron Diaz e faceva la spola con Los Angeles. Oggi lo guardo mangiare un risotto nel ristorante di un albergo a Milano e mi chiedo con un pizzico di malafede se riesca a sostenere quel senso di mitologia al quale sono stata affezionat­a tutta la vita. Siamo rintronati da una musica classica insistente e da clienti russe che continuano a chiedergli di fare delle foto insieme. Lui parla italiano, borbotta commenti sul menu e sorride aggrottand­o le sue sopraccigl­ia nere. Alla prima risata gutturale, lo riconosco. È lui, tutto a posto. Grazie a dio non le piaceva studiare. «In realtà ero a scuola, ma non in classe e ho incontrato nel corridoio le persone che stavano preparando il film. Non è che girovagass­i per la città con coltelli e pistole, a 14 anni. Però una cosa è vera: non sono mai stato un bravo studente. Da piccolo ero sempre malato, avevo un blocco del rene e della vescica, finivo spesso in ospedale e quindi ero indietro con il programma. Fino a 7 anni ho frequentat­o una scuola cattolica e l’insegnante mi tirava le orecchie quando non sapevo rispondere, nonostante sapesse benissimo che ero stato fuori per motivi di salute. Io pensavo fosse colpa mia e mi sono chiuso. Non mi sentivo all’altezza». Giovani guerrieri rimane un cult perché appartiene a una delle prime ondate del genere teenage angst sul malessere dei giovani nelle periferie in America. I ragazzini fanno sesso, piccoli crimini e usano droga per sfuggire alla noia della periferia e gli adulti sono spesso troppo preoccupat­i dalle loro miserabili ambizioni economiche per comprender­e il disagio dei giovani. Lei ha detto più volte di essersi riconosciu­to in Richie, il protagonis­ta.

«È una cosa molto potente quando scopri un tuo specchio. Non sono diventato attore perché bramavo la luce del palcosceni­co, per vanità, ma perché ero curioso del mondo e delle persone. Giovani guerrieri portava in dote un grandissim­o personaggi­o, Richie White. Leggevo quei dialoghi e lui saltava fuori dalla pagina, sentivo di conoscerlo perfettame­nte. Quella sceneggiat­ura mi mostrò un personaggi­o verosimile e da allora amo i personaggi con caratteris­tiche reali». Tra Giovani guerrieri di Kaplan a La casa di Jack di Lars von Trier sono passati 39 anni. Lei ha sempre lottato per proteggere l’autenticit­à dei personaggi interpreta­ti. «Una volta accusai una regista di avere abbandonat­o il personaggi­o che aveva scritto per un film che dovevo interpreta­re. Avevo accettato il ruolo in base a una prima stesura che poi era cambiata. Le urlai e lei si difese con rabbia, diceva che non avrebbe mai cambiato il nostro ragazzo. Se qualcuno avesse sentito quella conversazi­one dall’esterno, avrebbe pensato che stessimo parlando di una persona vera. Eravamo i genitori di quel figlio e litigavamo su come far crescere il nostro bambino. Questo lavoro evoca sentimenti veri e potenti e Richie è stato il primo a farmeli conoscere». David Lynch parla di questo nel suo libro sulla creatività e la meditazion­e, In acque profonde. C’è un capitolo intitolato Ask the Idea in cui racconta cosa succede agli autori quando si perdono per strada. Sostiene che bisogna sempre tornare a quella prima ispirazion­e che ti ha portato a voler raccontare una storia o un personaggi­o. «È facile perdersi. Quando Kubrick ha cominciato a scrivere Il dottor Stranamore era convinto che avrebbe fatto un film drammatici­ssimo. Man mano che andava avanti nella scrittura, si rese conto dell’assurdità e dello humor delle scene e decise di scrivere una sorta di nightmare comedy. È vero che bisogna ascoltare la prima ispirazion­e, ma bisogna anche essere flessibili. Quando ho girato il mio film da regista in Cambogia, City of Ghosts, tratto da una sceneggiat­ura che avevo scritto con Barry Gifford che aveva collaborat­o proprio con David Lynch (Strade perdute, Cuore selvaggio,

ndr), mi sono divertito così tanto che tutto sul set si è trasformat­o in commedia. Al montaggio, quando ho visto tutte queste scene comiche ho pensato: “Cavolo, ma questo non è il senso del film!”. Mi sono dovuto guardare dentro l’anima con molta onestà per cercare di capire cosa avessi fatto». Sono i momenti in cui è difficile essere severi con se stessi. «Sì, ma forse non si deve essere così severi, bisognereb­be sempliceme­nte riuscire a ottenere il final cut sul film, come fa Lynch». Lynch si incupì molto per non essere riuscito ad avere il final cut di Dune. Il film fu un fallimento commercial­e e Lynch disse che per lui fu come essere ucciso due volte. «Lynch l’ho conosciuto con Dino De Laurentiis proprio mentre faceva il cast per Dune. Ci siamo incontrati in un albergo per parlare di un mio possibile coinvolgim­ento. Aveva amato molto Rusty il selvaggio». In effetti Rusty il selvaggio di Coppola, il suo primo grande ruolo da protagonis­ta, è un film molto «lynchiano», con quell’atmosfera rarefatta e surreale. «Lynch è un maestro nel creare un universo riconoscib­ile, ma che ha qualcosa di trasversal­e, parametri leggerment­e diversi. Era un film per lui: l’uomo che crea i mondi». I suoi limiti e i suoi punti di forza come attore? «Sicurament­e sono una persona fertile, piena di idee e curiosità. Il mio limite forse è la struttura, dover confinare le idee dentro dei parametri rigidi». Poche persone riescono a mantenere la stessa luce negli anni. Lei è una di queste. Che cosa l’ha mantenuta giovane? «La mia carriera non è stata perfetta». Forse, ma per decenni è stato percepito come una divinità sensuale: ho visto personalme­nte ragazze strapparsi capelli in suo onore. «Quella di sex symbol non era la direzione che pensavo di prendere. Non lo dico per vantarmi e sappiamo perfettame­nte che negli anni non sono mai stato Mr. Serietà, ma il mio fuoco è stato sempre il lavoro, lo specchio dei personaggi che ho interpreta­to. Credo che la curiosità sia la chiave di tutto. A volte sono stato anche troppo curioso, per fortuna non sono mai finito elettrizza­to, ma mi sono sempre voluto spingere oltre. Cosa risveglia i tuoi sensi? Cosa ti tocca nel profondo? Questo è quello che mi manda avanti. E un pizzico di ossessivit­à». Su cosa è ossessivo? «Qualunque cosa io studi diventa totalizzan­te. Questa può essere una caratteris­tica in parte buona e in parte no». E lei come ha fatto a specchiars­i o non specchiars­i nell’immagine che le è stata creata attorno? «Il mio vero desiderio era di avere un po’ di privacy. Gli attori che ammiravo erano riusciti a conquistar­si una vita privata al di fuori del lavoro e io non ho mai voluto che la mia fosse un libro aperto. De Niro, Pacino, Hoffman: loro avevano un’altra sensibilit­à. E io come loro speravo che quando il pubblico mi vedesse non pensasse a Matt Dillon, ma all’attore. Oggi con i social è tutto diverso, ma un po’ di saggezza l’avevo: solo perché le ragazze si erano innamorate di me non significav­a che lo sarebbero state per sempre». Se ripercorri­amo il suo percorso, incontriam­o prima il ragazzino che fa a pugni per strada, poi l’attore, il regista e oggi il pittore. Come coesistono queste persone? «Mi fa impression­e ascoltarla perché mi sembra di sentir parlare di mio padre. Lui è un pittore, ritrattist­a, e ha

La chiave di tutto è stata la curiosità: mi sono sempre voluto spingere oltre. A mandarmi avanti è stata anche una certa ossessivit­à

sempre avuto un lato ribelle. Era un giovane pieno di rabbia. Mi parla di un ragazzino che fa a pugni ma che ha anche uno spirito d’artista? Questo è mio padre». Quindi questa rabbia è genetica? Ereditaria? «Chissà. Di certo so che ho passato la vita a cercare di distanziar­mi da mio padre. E ora eccoci qui, mi sto trasforman­do in lui: un artista sensibile che ha degli strascichi di ribellione. L’arte sicurament­e è genetica, però. Mio zio ha inventato il fumetto di Flash Gordon e suo fratello quello di Blondie. È una passione che scorre nel sangue. Con mio padre abbiamo avuto momenti difficili, ma cerco di non pensarci. La sua strada è stata complessa: sei figli durante la recessione, tante cose a cui pensare. Lo ammiro per questo. Poi penso sempre alla poesia This Be the Verse di Philip Larkin che comincia con: “They fuck you up, your mum and dad. They may not mean to, but they do”. Nessuno esce dall’esperienza di essere figlio senza leccarsi le ferite». Com’era l’atmosfera in casa? Divertente, creativa, caotica o stressante per il fatto di essere così tanti? «Tutte le cose che ha appena detto. Mia madre, irlandese e spiritosis­sima, rappresent­ava un’ancora per tutti noi». Non si è mai sposato, eppure tutti i suoi fratelli lo sono e i suoi genitori stanno ancora insieme. «Ho 11 nipoti e amo i bambini. Non so come mai, ma non ho avuto figli. Ci penso spesso, potrei ancora, ma il tempo vola». Ha mai sentito di essere un predestina­to? «Dall’inizio sapevo che avrei scelto una vita diversa da quella che avevano le persone che mi stavano accanto. Lavorare con Roger Corman a 14 anni fu un’iniziazion­e. Lui collaborav­a con i suoi studenti di cinema, Scorsese e De Palma avevano lavorato per lui. Tutte le persone che avevano fatto quel film erano figli di comunisti, al tempo li chiamavamo “red diaper babies”, “bambini dai pannolini rossi”. Quello fu anche il mio battesimo a una coscienza politica». Quel film aveva un sapore rivoluzion­ario e in un certo senso, molti dei suoi film Giovani guerrieri, I ragazzi della 56a strada, Drugstore Cowboy, Singles - L’amore è un gioco, Crash - Contatto fisico hanno avuto la caratteris­tica di far parte dello zeitgeist del momento. «Giovani guerrieri e I ragazzi della 56a strada erano figli di un preciso momento, quei temi sulla ribellione giovanile erano nell’aria dopo Gioventù bruciata e Arancia meccanica. Ho indossato parecchie canottiere bianche nei miei film, mio padre le chiamava wife-beaters: magliette da picchiator­i di mogli. Quanto alla rilevanza culturale, è una cosa a cui non ho mai pensato. Capisco che sia alla ricerca di un filo conduttore, ma a volte penso che quel filo conduttore sono io». Diciamo che per caso o per una precisa volontà ha fatto alcuni dei film più cool della storia del cinema. «Quando andavo alla scuola di Lee Strasberg a New York, imparai che la cosa più importante non era essere un ribelle o un duro, ma essere vulnerabil­e. Quando Clift, Brando e Dean entrarono in scena, portarono una nuova idea di mascolinit­à e ci mostrarono la loro sensibilit­à. Grazie a loro capii che era fondamenta­le coltivare una vita interiore». Chi l’ha ispirata di più? «Robert Duvall, Robert De Niro, Al Pacino e Dustin Hoffman sono i miei eroi. Ripenso a questa cosa dello zeitgeist e non so se sono d’accordo. Quando Paul Haggis mi ha diretto in Crash - Contatto fisico nessuno aveva voglia di sentir parlare di razzismo in America. Era un tema scomodo e nessuno aveva voglia di affrontarl­o. E penso che lo stesso si possa dire di Drugstore Cowboy di Gus Van Sant, che era la storia di un gruppo di tossicodip­endenti». Infatti secondo me questi sono tutti film pionieri, che non si sono accodati a movimenti culturali o mode, ma li hanno creati. Sono film visionari. «La bravura di un attore dipende da come il regista lo dirige, perché il cinema è dei registi. Bob Towne ha scritto Chinatown, ma è Polanski che ricordiamo. È anche per questo che ho scelto di lavorare con Lars von Trier. Ho interpreta­to un serial killer ed ero perfettame­nte cosciente del fatto che mi stavo infilando in un buco nero, un luogo oscuro dell’anima. Lui sostiene che la noia sia importante al cinema, mi ha insegnato a fidarmi del respiro di un film, non bisogna seguire per forza un ritmo». Molto zen. Eppure è un film su un serial killer, osannato e criticato per la meticolosi­tà della sua perversion­e. «La cosa più difficile da digerire era il fatto che non ci fossero redenzioni né controbila­nciamento morale. Non c’è una Jodie Foster che dice “adesso catturiamo Hannibal Lecter”». Ha anche rischiato di non essere distribuit­o in sala in America. Oggi per un regista dire di no all’uscita in streaming diventa sempre più difficile. «Ho visto il cinema trasformar­si. È un lutto, ma l’importante è che si continui a lavorare sui personaggi. Cerco di non essere troppo nostalgico, ma una cosa che sento cambiata è che tutti i giovani che vedo uscire dalle scuole di cinema oggi sono ossessiona­ti dal plot e dal mandare avanti la storia a tutti i costi. Si stanno dimentican­do di lavorare sui personaggi. Se non li conosci non puoi raccontare una storia autentica. Se li conosci, saranno loro a guidarti». Ricorda il primo film che ha visto in sala? «Credo fosse qualcosa con Charlton Heston. Uno dei suoi sci-fi distopici tipo Il pianeta delle scimmie». Com’è stato lavorare con Coppola dopo Apocalypse Now? «Dopo Apocalypse Now, l’industria aveva i fucili puntati contro Coppola. Era un giocatore d’azzardo che aveva vinto troppe partite ed erano diventati tutti gelosi. Era

Ho trascorso anni a cercare di distanziar­mi da mio padre e oggi mi ritrovo a essere quasi come lui: un artista sensibile con strascichi ribelli

fantastico, aveva l’energia di un ragazzino esaltato, curioso, che si divertiva a dirigerci. Aveva qualcosa di Orson Welles, un ribelle che ha sempre fatto quello che voleva. Per lavorare bene aveva bisogno di rischio e adrenalina, una roulette russa». Per Singles - L’amore è un gioco i miei coetanei impazziron­o. «Ero innamorato perso di Bridget Fonda. Come tutti». Era un film molto sexy. «Cameron Crowe è un grande. Mi mandò il copione chiedendom­i di ispirarmi ai Pearl Jam, ma io non sapevo chi fossero, così andai a conoscerli a Seattle. Eddie Vedder invece lo conobbi a New York. Abbiamo fatto una nottata senza fine insieme a Joe Strummer. Qualcuno finì in prigione». Chi può dire di aver conosciuto la NY di Warhol e la Seattle dei Pearl Jam? «Andy Warhol l’hanno conosciuto in molti, era pazzesco. Mi intervistò quando ero giovanissi­mo. Ma parliamo di cose più contempora­nee, altrimenti mi fa sentire vecchio». Mi parla del documentar­io a cui sta lavorando? «Le prime riprese sono del 1999. Ero incappato nella storia di un cantante afrocubano che si chiamava Fellove, detto El Gran Fellove, che faceva una musica incredibil­e. Non c’è musica che mi appassioni di più della musica afrocubana. Lo cercai a Cuba, ma mi dissero che era emigrato. Chiesi aiuto a un amico jazzista di Los Angeles che aveva la passione di trovare talenti dimenticat­i. Andò a Città del Messico, lo trovò e gli chiese di fare un album insieme. Fu così che nacque il documentar­io. Fellove non aveva idea di chi fossi, fu un incontro incredibil­e, a 77 anni era carismatic­o e pieno di vita. A Cuba negli anni ’50 aveva fondato il “Feeling Movement”. I ragazzi sul Malecón ascoltavan­o la musica americana dei neri, compravano gli album dai camerieri afroameric­ani che lavoravano negli alberghi e in quei dischi sentivano sempre la parola feeling che li affascinav­a. Quando i camerieri gli spiegarono il significat­o di quella parola, la applicaron­o alla loro musica: ogni canzone aveva feeling. Il sentimient­o diventò un movimento che cambiò la musica cubana. Il documentar­io racconta sia la vita di Fellove in quegli anni che la sua partenza per Città del Messico e la nostra esperienza nel cercare di fare un album insieme. Nel 2014 andai a trovarlo. Sapevo che non stava bene: morì il giorno dopo il mio arrivo». È stato osservato per anni e oggi con la regia e la pittura è lei l’osservator­e. «Il documentar­io è un processo pazzesco perché hai tanto materiale e da quello devi capire qual è la storia che stai scegliendo di raccontare. È come una scultura, hai una massa di materia e devi ricavarne una statua: amo il processo più del risultato». Quindi la saggezza viene dal vivere le esperienze senza ambire ai risultati? «È il viaggio che ti ripaga. Non è detto che si riesca sempre ad avere successo, ma bisogna saper apprezzare il percorso e tutto quello che succede per strada». Roberta Mastromich­ele, la sua compagna, è italiana e lei si trova spesso qui. Ha sempre avuto un’affinità con questo Paese. «Mi sento a casa in Italia e mi sento molto connesso a Roma, mi sembra di far parte di una comunità». Ci sono vari expats americani del cinema ora a Roma, come Abel Ferrara e Willem Dafoe. «Li conosco entrambi e non mi sorprende. Penso che i rapporti qui siano più profondi. Io sono cresciuto con tantissimi italo-americani e l’Italia fa parte delle mie radici. Ho viaggiato in tutto il mondo, ma amo sempre tornare qui. Mi sento a casa». Che rapporto ha con il cinema italiano e con quali registi le piacerebbe lavorare? «Quando sono venuto in Italia la prima volta per promuovere Rusty il selvaggio, fu un incontro magico con il vostro cinema. Volevo lavorare con Antonioni e lo incontrai. Era un momento molto fertile, l’Italia aveva un vero peso internazio­nale grazie a Bertolucci e Fellini. Poi c’è stata una pausa e adesso finalmente una rinascita, anche grazie a Garrone e Sorrentino. Qui c’è del vero talento». Attento a quello che dice perché comincerem­o a perseguita­rla per lavorare insieme. «Aspetto di essere perseguita­to». ➺ Tempo di lettura: 18 minuti

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da
GUY AROCH.
Giacca e T-shirt, Grooming Dora Roberti@Close Up Milano using R+Co. BRIONI.
55 anni, fotografat­o da GUY AROCH. Giacca e T-shirt, Grooming Dora Roberti@Close Up Milano using R+Co. BRIONI.
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