BETTINO CRAXI Raccontato dal figlio Bobo
Il concertino con Lucio Dalla, le partite a biliardo, i ricoveri e i libri senza editore. Mentre, a 20 anni dalla scomparsa di Bettino Craxi ad Hammamet, un film racconta gli ultimi mesi della sua vita, il figlio Bobo rievoca qui l’uomo sconfitto ma capac
Ronzano nella testa le «canzonette» che escono dalla radio in questo periodo che invitano al ricordo. «Come? Non ricordi più? Dai, che anno era?», canta l’aria di Cremonini, Cesare; si avvicina il mese di gennaio che per me è inevitabilmente un periodo dedicato alla memoria.
Una memoria che ho accantonato tante volte come si fa quando non si vuol pensare a qualcosa che ti ha fatto soffrire perché la morte del genitore incomincia a essere anche la tua; in più c’è il fatto che la circostanza e il genitore in questione fossero abbastanza speciali, ma questo conta sempre fino a un certo punto.
Però siccome sono passati venti anni e non sarà lo scontato rito abbreviato dell’omaggio funebre a scandire l’anniversario, sto cercando di setacciare il baule della memoria per rendere ai miei occhi un ricordo fisico della presenza paterna.
Per questo da quando si è materializzata una figura che in qualche modo lo ricordava nel corridoio della nostra casa di Hammamet non ho smesso di continuare a immaginarlo e anche a sognarlo, e questo è un grande dono dell’inconscio.
Favino si muoveva claudicando, rifaceva il Craxi sofferente e ne aveva assimilato tutte le movenze, anche fuori dal set, «guardalo come cammina... come sta dritto nella tempesta», ripensavo al Gambadilegno degregoriano (la canzone Gambadilegno a Parigi di Francesco De Gregori del 2005, ndr), eppure io il mio papà non potevo che immaginarlo invincibile come tutti e soprattutto immortale; e invece l’ho dovuto immaginare e guardare da lontano nell’infanzia, austero, severo, impegnato, battagliero, burbero ma benefico nell’adolescenza quasi gioventù e me lo sono ritrovato battuto, sconfitto, avvilito e mortificato quando alla fine ci siamo ritrovati a vivere sotto lo stesso tetto improvvisamente. Io, sposato con prole, lui esiliato come Garibaldi ma desideroso di vendetta come il Conte di Montecristo alias Edmond Dantes, che infatti adottò come nom de plume per elzeviri e intemerate contro i sistemi che lo avevano abbattuto.
Si muove come lui, gesticola come lui, porta gli stessi pantaloni di una larga tuta e le scarpe tagliate in due per far respirare le dita martoriate dal diabete; però non porta il suo profumo. Lui infatti si rovesciava con le mani sorsi di Eau Sauvage dalla bottiglia magnum che si comperava a un duty free di Tunisi riservato ai diplomatici, dove si incontravano anche delle leccornie che frequentavo utilizzando la tessera che mi passava di straforo un compagno diplomatico cileno; la bottiglia di Eau Sauvage, qualche vecchio maglione di cachemire, il cappello dellA’ frikakorps e una sua riedizione di Banana Republic, nonché qualche scritto e certamente diverse foto è quel che mi resta di mio padre.
La sua voce per fortuna ogni tanto la posso risentire andando su YouTube, ma non lo sentirò mai più canticchiare anche se ad Hammamet lo si faceva di rado, anzi non lo si faceva più come non si giocava più a boccette nel bigliardo Mari (bigliardi senza pari), dove faceva coppia con mia moglie Scilla e non abbandonava il tavolo certo della vittoria perché guai se lo avessimo stracciato come invece faceva a noi. Spaccone.
Non si cantava più ma se ripenso a quando porgeva il fianco e appoggiava come un crooner canzoni napoletane o milanesi, devo dire con una certa intonazione ma senza contezza del tempo musicale, mi vien un riso misto a commozione. Come quella volta che preparammo un vero e proprio concertino con Lucio Dalla, organizzando una scaletta alla bene e meglio e infilandoci un pezzo sconosciuto del suo repertorio recente che si chiamava Latin Lover, un quasi-blues in La maggiore.
«Sai Bettino che la volevo chiamare Craxi?», diceva Lucio; il testo infatti parla di «un politico, forse un aviatore» che camminava tutto solo fra i viali di Riccione.
Non finimmo il pezzo che si era allontanato. Non amava, come tutti i timidi, mostrar sentimenti in pubblico, anche se una o forse due volte in vita mia lo vidi piangere sul serio, al di là del ricordo dei nonni defunti, lo fece quando arrivò la notizia della morte di François Mitterrand cui era legato da profondo rispetto, non gli era amico nel senso più letterale del termine, per via epistolare si davano del lei, ma erano vecchi compagni che avevano portato i socialisti al vertice del potere in Italia e in Francia e avevano rischiato assieme l’estinzione; insomma aveva un debole per lui, pur non essendone che un «emulo» da molto lontano.
Lo vidi commosso quando arrivò la notizia dell’assassinio di Rabin, era terrorizzato che fosse caduto per mano palestinese, cosa che in realtà non fu; lo conosceva da lungo tempo, fu ospite dei laburisti israeliani più volte e ne ammirava il coraggio politico più che quello militare.
«La pace», soleva dire, «come il compromesso è sempre l’obiettivo più complicato da raggiungere, costa fatica, sudore e non risparmia le vite umane».
Si commuoveva alle partenze, anzi quando con tristezza comunicai che era arrivata l’ora per mia figlia Vittoria di frequentare un asilo, cercò di convincermi che nei circondari
di Hammamet ci fosse un «accogliente asilo belga» e mise un brutto muso perché probabilmente avevamo esaurito, nell’esilio che prolungammo per quasi un triennio, le nostre pile. Volevamo tornare a uno straccio di simulata normalità tornando per lo meno da esiliati ma in patria.
Non lo digerì. Fondamentale che fossimo lì, a guardare un bidone vuoto o gli infiniti cieli azzurri mediterranei a escogitare piatti per la serata e quando si trovava la trippa o i funghi che arrivavano dalle foreste del nord tunisino si faceva festa.
Per il resto ricordo molta solitudine e anche disperazione mitigata però dalla primavera e soffocata dalla calura estiva, talmente aggressiva quella tunisina che non gli faceva bene.
Infatti gli immancabili ricoveri avvenivano all’inizio dell’autunno.
«Non sto bene», si toccava il braccio, mi pare fosse appena finito il derby milanese finalmente rivinto dal Milan, arrivammo di corsa a una specie di pronto soccorso, con una specie di medico di guardia e una specie di infermiera gli teneva il braccio per una flebo. Ed era una presenza per lui gradita.
Come un presagio fu l’inizio della fine. Molti medici, ricoveri con la pena e le aspettative che tutti conoscono con le diagnosi che diventano pronostico mentre in Italia nessuno si prendeva la pena di dire: «Siccome la guerra è finita e Craxi ha perduto e sta per morire, sarebbe il caso di concedergli la grazia perché non si fa crepare un primo ministro fuori dal Paese».
Siccome questo non succedeva più, ché la comprensione montava la rabbia per l’impotenza e il disprezzo verso aguzzini che per fortuna in parte lo hanno raggiunto all’inferno o in paradiso dove riposano le anime.
L’ultima volta che ci siamo incontrati mi aveva rispedito in Italia per un’ennesima missione inutile e a vuoto. Essenziale era coltivarne l’illusione. Mi piacevano le sue opere concettuali, ne curai diverse edizioni andando a scovare delle tipografie nella banlieue di Tunisi mentre in Italia mi rifiutavano di stampare i suoi libri; si era illuso di essere anche un artista e questa era però una bella illusione, mentre quella della missione a buon termine per un salvacondotto non lo fu; «Ci vediamo martedì», dissi. Ma non ci rivedemmo.
Ancora «non ci posso credere che non ti avrei rivisto più...».
Sono passati molti anni, venti. La mia memoria a volte vuole ricordare, a volte no. Sento che ogni tanto riparlano di lui, al Senato e alla radio.
Però io mi ricordo di mio padre e della sua storia di avventure finita male.
E la ricordo spesso con fatica ma in fondo volentieri, perché non penso di aver più incontrato un uomo che ipnotizzava con lo sguardo e ti conquistava con una risata o con un vaticinio come sapeva fare lui.
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