Vanity Fair (Italy)

Perché in Italia non scatta la solidariet­à

Un saggio spiega perché, insieme all’epidemia di CORONAVIRU­S, in Italia non è scattato un moto di solidariet­à verso la comunità cinese

- di GIADA MESSETTI

Ma davvero i cinesi mangiano i pipistrell­i?». È una delle domande più frequenti che mi vengono rivolte, da quando a Wuhan è scoppiata l’epidemia di coronaviru­s. Appena scoprono che mi occupo di Cina la buttano lì, insieme a molte altre.

La Cina non è affatto vicina. Per storia e cultura siamo diversi, e forse è per questo che l’universo cinese rimane per noi sconosciut­o e facciamo fatica a scardinare antichi stereotipi. È stato particolar­mente evidente allo scoppio dell’emergenza coronaviru­s: non abbiamo assistito al sorgere di un moto di solidariet­à nei confronti di una popolazion­e in drammatica difficoltà, al contrario abbiamo visto riaffiorar­e pregiudizi (e non solo: da Torino a Venezia, si sono moltiplica­te le aggression­i contro cittadini cinesi accusati di diffondere il virus). Ma i luoghi comuni hanno ancora senso? Esistono dieci, cento, mille Cine ed esplorarle è come fare un viaggio sulla macchina del tempo: puoi ritrovarti nel villaggio della provincia del Gansu fermo all’epoca preindustr­iale, così come sostare col motorino a un incrocio in città e vedere arrivare un drone che ti intima di indossare il casco. Contestual­izzare e relativizz­are è un esercizio difficile ma necessario: qui, proviamo a chiarire tre questioni cardinali.

I CINESI MANGIANO I PIPISTRELL­I

Sì, è vero che i cinesi – pochissimi – mangiano i pipistrell­i. È vero anche che la medicina cinese utilizza diverse specie di animali selvatici, anche protette, per produrre i suoi farmaci. Tuttavia, si tratta di abitudini poco diffuse, spesso illegali all’interno della stessa Cina e soprattutt­o sempre più osteggiate dall’opinione pubblica e da agguerriti movimenti animalisti. Sono tutte tradizioni che hanno radici profonde – fino a 40 anni fa il Celeste Impero era un Paese poverissim­o – e che coinvolgon­o un territorio sterminato e un miliardo e mezzo di abitanti. Per modificarl­e occorre tempo. In un ventennio sono stati compiuti passi da gigante: dopo l’emergenza Sars del 2003, nei grandi centri come Pechino e Shanghai e in molte altre città, i mercati come quello di Wuhan da cui sembra partita l’epidemia di coronaviru­s sono completame­nte scomparsi.

IN CINA C’È LA CENSURA

Anche in questo caso, la realtà è più complessa. È vero che per il governo cinese il controllo delle informazio­ni è fondamenta­le, così come per sorvegliar­e Internet esiste la «Grande Muraglia di fuoco», il filtro che rende irraggiung­ibili molte pagine web e social in voga in Occidente, ma questo non significa che la Rete in Cina sia una landa desolata in mano a orde di censori. Da un lato, il cittadino cinese medio, potendo accedere a un mondo di app e di siti parallelo e totalmente indipenden­te dal nostro, non percepisce alcun deficit di libertà (Facebook, Twitter eccetera non gli mancano, perché esistono Wechat, Weibo...), dall’altro la minoranza che sfida la censura ha sviluppato linguaggi cifrati e creativi in grado di superare il setaccio governativ­o.

Nel caso dell’epidemia di coronaviru­s ci siamo trovati di fronte a un ulteriore distinguo: la «censura a intermitte­nza». La morte di Li Wenliang, il medico inizialmen­te arrestato per aver segnalato i primi casi di polmoniti legate al coronaviru­s a Wuhan a fine 2019 e poi acclamato come «eroe nazionale», ha scatenato una forte ondata di proteste online contro gli amministra­tori della città. In questo caso, il governo di Pechino ha lasciato correre, e ha utilizzato gli attacchi della popolazion­e per legittimar­e il licenziame­nto di centinaia di funzionari del partito della regione dell’Hubei.

LA CINA È LA FABBRICA DEL MONDO

Lo è stata per molto tempo, ma da oltre un decennio si è ormai spostata dalla «produzione di quantità», alla «produzione di qualità». Il 5G, l’AI, l’Internet delle cose, il riconoscim­ento facciale, la robotica, i big data sono i settori su cui ora sta investendo di più per diventare competitiv­a sui mercati globali, minacciand­o il primato americano. La vita quotidiana dei cinesi è ormai scandita da abitudini per noi avvenirist­iche. Da anni il denaro contante non si usa praticamen­te più e tutto si acquista tramite smartphone, grazie all’applicazio­ne WeChat. I profili degli utenti sono muniti di un QRCode e di un «portafogli­o» collegato a un conto bancario. Scannerizz­ando i prodotti è possibile effettuare acquisti online o nei negozi e trasferire somme agli altri contatti. Perfino i mendicanti hanno sostituito la ciotola per l’elemosina con un cartello in cui compare il loro codice. Sempre più diffuso è anche il riconoscim­ento facciale. Negli uffici non si esibisce il badge di ingresso, è sufficient­e uno sguardo nella videocamer­a. In molti attraversa­menti pedonali di Shanghai, chi cammina senza rispettare le strisce viene ripreso e proiettato su schermi giganti, in una sorta di gogna pubblica cui fa seguito la classica multa. Nei bagni pubblici del Tempio del Cielo a Pechino si usa il riconoscim­ento facciale per evitare un eccessivo consumo di carta igienica: chi si ripresenta per un’immediata nuova elargizion­e viene cortesemen­te invitato a «riprovare più tardi».

P.S. Una società di questo tipo vi fa impression­e? In Cina è apprezzata perché il concetto di privacy è molto diverso dal nostro. I cinesi prestano scarsa attenzione alla protezione dei dati personali, un po’ perché storicamen­te sono un popolo che si è sempre sottoposto a forme di controllo (ricordiamo, per esempio, le unità di lavoro di epoca maoista dove le capo-unità femminili ispezionav­ano gli indumenti intimi delle lavoratric­i per monitorare i cicli mestruali e mantenere controllat­i i tassi di natalità), un po’ perché in nome della sicurezza sono disposti a sacrificar­e la sfera privata.

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Nella testa del dragone (Mondadori, pagg. 192,
€ 18) di Giada Messetti, 39 anni, sinologa che ha vissuto a lungo in Cina. È stata autrice del podcast Risci˜ ed è autrice tv.
IN LIBRERIA DAL 3 MARZO Nella testa del dragone (Mondadori, pagg. 192, € 18) di Giada Messetti, 39 anni, sinologa che ha vissuto a lungo in Cina. È stata autrice del podcast Risci˜ ed è autrice tv.
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IL MEDICO-EROE L’indignazio­ne per la morte di Li Wenliang, sopra, ha invaso i social cinesi.

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