RAZZISMO
Il libro
Un pomeriggio di febbraio, a Milano, una donna è arrabbiata al telefono. «Chiamano in tanti, dall’estero, per disdire shooting, appuntamenti, nessuno vuole venire in Italia», mi dice. Si chiama Gabriella Nobile, e ha una doppia vita. Di giorno, lavora come agente di fotografi e artisti, di sera si occupa di Mamme per la pelle, l’associazione no profit che ha fondato e che raduna madri adottive, biologiche o affidatarie per tutelarne i figli discriminati per la loro origine. Lei e suo marito molti anni fa hanno adottato Fabien, nato in Congo, e Amelie, nata in Etiopia. Oggi hanno 14 e 9 anni, e sono a casa: nella settimana in cui scriviamo, il sindaco Beppe Sala ha deciso di chiudere le scuole per il coronavirus.
«Si è sempre lo straniero di qualcuno», scriveva Tahar Ben Jelloun nel saggio Il razzismo spiegato a mia figlia, per raccontare a Merième, che allora aveva dieci anni, che cosa succedeva in Francia (era l’epoca della legge Debré, che prevedeva la schedatura degli immigrati) e così educare alla tolleranza le generazioni a venire. Era il 1998, e quel romanzo
diventò un bestseller che l’autore ha aggiornato negli anni. Mai come oggi quella frase è tanto attuale: finora, gli «stranieri» erano i suoi figli, dice Gabriella Nobile. O i vicini, di religione ebraica. O i bambini delle mamme che le scrivono, ogni giorno, normali storie di razzismo quotidiano, che lei ha raccolto, aggiungendoci la sua, nel libro I miei figli spiegati a un razzista. C’è Jasmine, che a 8 anni, per il cassiere che la vede armeggiare con delle caramelle, è già una ladra. C’è Aron, che viene buttato fuori dall’autobus che lo porta a scuola. C’è Amir, perquisito in stazione perché «sicuramente è uno spacciatore». In questa strana settimana gli «stranieri» sono diventati prima tutti quelli dai lineamenti asiatici – «Ci arrivano decine di segnalazioni al giorno di bambini picchiati, insultati, perché ritenuti untori», spiega Gabriella – «e ora siamo diventati noi. Italiani fermati, rispediti a casa, messi in quarantena dagli altri Paesi».
Essere diventati «non desiderati», può renderci più tolleranti?
«Sicuramente ci farà riflettere».
Siamo ormai abituati a notizie come quella della strage xenofoba ad Hanau, in Germania, o del pestaggio di un cingalese, a Palermo. Il razzismo è un’emergenza?
«Le notizie a cui siamo assuefatti sono solo la punta dell’iceberg di quel che succede nel quotidiano e di cui ho traccia». L’associazione che ha fondato nasce dopo il post di Facebook, diventato virale, che lei scrisse nel 2018, una lettera aperta a Matteo Salvini in cui raccontava come sua figlia le chiedesse: «Se vince lui, ci rimandano in Africa?». Eppure nel suo libro lei dice che ci sono episodi di razzismo più banali e frequenti, di cui nemmeno ci accorgiamo. «I miei figli mi hanno aperto gli occhi. Le faccio un esempio: ad Amelie, tutti, anche sconosciuti, toccavano i capelli. “Che belli”, dicevano. A me sembrava un complimento, ma a lei – mi ha raccontato poi – dava fastidio. Oppure le dicevano: “Che bel cioccolatino!”. Io non dico a tua figlia bionda: “Che bel formaggino!”». Parla anche della «finta empatia» degli altri.
«Ci sono quelli che minimizzano. Se gli racconti che hanno insultato tua figlia per la sua pelle, ti rispondono: “Anche la mia veniva presa in giro per i brufoli”. Ma io non parlo di bullismo a scuola: anche io da piccola ero balbuziente e venivo derisa dai compagni. Parlo del razzismo degli adulti, della società che sottolinea che sei diverso, non amato».
Lei si domanda se forse è razzista anche lei, perché chiede a suo figlio Fabien di avere voti alti, vestirsi bene...
«Doveva sempre essere più educato degli altri, più in ordine, andare benissimo a scuola, perché un sei per lui diventava un quattro, e un dieci un otto. Doveva prendere la rincorsa per tutto, perché partiva svantaggiato per il colore della sua pelle. Lo spronavo per proteggerlo, lo volevo invisibile tra gli altri, e lo trattavo io per prima come un “diverso”: sono stata vittima di razzismo anch’io. Dicevo “di colore”: pensavo fosse un termine più gentile, invece bisogna dire “nero”, me lo hanno fatto notare i miei figli che non sono “di un altro colore” ma, come dicono loro, in realtà, loro sono marroni, e io rosa».
Fabien lamenta l’essere stato a volte scambiato per un mendicante o uno spacciatore. Non è anche questo razzismo?
«Se glielo chiede, lui dice di essere italiano, non africano. Ha l’accento milanese, non è mai stato in Africa e non ne parla. Un giorno farà pace con le sue origini, ora da adolescente vuole omologarsi. Ha scoperto di essere nero giocando a calcio, è molto bravo. Ma “sporco negro” te lo gridano lo stesso».
Come se ne esce?
«L’unica strada è l’empatia, mettersi nei panni dell’altro: provare a immedesimarsi in uno straniero che rischia la vita per salvare i suoi figli, o in un bambino che torna a casa dal parchetto troppo silenzioso, perché il suo amico gli ha detto “con te non gioco più perché sei nero” e lui, magari, ha risposto “scusa”».
Cosa che, racconta, è successa a sua figlia Amelie.
«Esatto. La sua amica del cuore le disse una cosa simile, e lei tornò a casa senza dire niente. L’ho scoperto grazie a Fabien, che aveva ascoltato quella conversazione».
Come ha reagito?
«Ho cercato sua madre e le ho spiegato l’accaduto. Mi ha risposto: “Non so come sia possibile, in casa non diciamo mai queste cose. Certo, quando per strada incontriamo un venditore ambulante diciamo: “Vedi? Ha la pelle dello stesso colore della tua amica Amelie’”. Non ci siamo più frequentati».
Servono provvedimenti come lo ius culturae?
«Sono fondamentali per dare a questi ragazzi un senso di appartenenza che gli è negato. Il paradosso è che mio figlio, che non è nato in Italia, è italiano. Il figlio di un egiziano qui da vent’anni è nato a Milano ma non ha la cittadinanza».
Liliana Segre, che ha scritto la prefazione del libro, aveva cercato di avviare una commissione parlamentare sul razzismo, ma è finita sotto scorta.
«Non ci conoscevamo, ma quando le ho scritto un’email per chiederle se voleva introdurre il libro, ha accettato. Le è piaciuta in particolare la parte in cui parlo proprio dell’empatia, che è la sola cosa che ci rende umani e ci fa smettere di essere solo oggetti. Stücke, dicevano i nazisti, “pezzi”».