PATRICIA MANFIELD
Il primo Ep di Heir
Quando arriva sul set crea subito un’atmosfera elettrica. Grandi occhi neri e labbra carnose, l’incedere sexy. Un corpo perfetto dalla vita minuscola segnata da un top a costine. Sotto: jeans anni Novanta e un paio di sneakers. «Il mio vero nome è Patricia, mentre Manfield è la versione inglesizzata del cognome russo», spiega. «Mamma non voleva che usassi il mio già ai tempi di Facebook, era terrorizzata dai social».
Gli stessi social con cui la cantautrice 27enne, il 4 marzo fuori con il suo primo Ep Daddy Issues (Sony Music), ha creato su Instagram una fanbase di oltre 400mila follower. Nata in Russia e cresciuta in Italia, Patricia oggi si fa chiamare Heir, vive a Londra e parla inglese con l’accento americano. Ogni tanto, però, le sfugge un irresistibile vabbuò o ejà. «Quando avevo 10 anni mi sono trasferita a Napoli perché mia madre si è innamorata di un uomo di Castel dell’Ovo. Questa città ha un cuore grandissimo, mi ha accolta a braccia aperte: è la mia casa», spiega. Prima, ha trascorso quasi tutta la sua infanzia di figlia unica («sì, sono molto viziata») viaggiando al seguito dei genitori, entrambi musicisti classici. «Eravamo sempre in tour nei teatri d’Europa. Ci siamo fermati soltanto per due mesi in Transilvania».
Non sorprende che cantare e scrivere canzoni faccia parte del suo Dna. È un richiamo irresistibile, quello per la musica? «Da piccola mi chiudevo in bagno davanti allo specchio per ballare e cantare. Poi ho iniziato a rappare in classe. Adoro le performance ed essere al centro dell’attenzione».
Perché ha scelto il nome d’arte Heir?
«Significa erede. I miei speravano che diventassi avvocato, ma non ce l’ho fatta: quando loro hanno smesso con la musica, ho incominciato io».
È partita pubblicando in rete cover di canzoni, tre anni fa ha debuttato con un disco suo, e adesso arriva Daddy Issues. «È stato un processo lungo. Mi ci sono voluti due anni per capire quale fosse il mio sound. Ora questo Ep chiude un capitolo importante. Ne avevo bisogno».
Di che cosa parla?
«Della mia relazione con gli uomini. La persona che frequento mi ha fatto capire che ho mancanze e frustrazioni dovute al rapporto irrisolto con mio padre, e con il compagno di mia madre. Ho sempre voluto essere indipendente dalle figure maschili, e non capivo perché. Certe volte gli ingranaggi si inceppano e diventa tutto faticoso. Ma noi donne siamo molto più di un cliché che ci rende bisognose d’affetto».
Sul palco è estremamente a suo agio. Quanto influisce il suo passato di It girl?
«Ci vuole l’attitudine giusta per stare sotto i riflettori. La carriera di influencer è capitata mentre studiavo a Milano. Un giorno un amico mi ha invitata a una sfilata e i fotografi di street style mi hanno presa d’assalto, pazzi per il mio tailleur vintage di Armani preso in prestito da mamma».
Adesso ha chiuso con quel mondo?
«Se vuoi costruire un personal branding è importante esporsi nel modo giusto e curare la propria immagine. Poi sarà il pubblico che ti segue a decidere se sei un’influencer oppure no».
Che rapporto ha con i social?
«Online c’è troppa perfezione. Ci vuole più verità. E poi ho una laurea, una professione e un giorno avrò una mia azienda il cui successo non dipenderà dal numero di like».
Oggi Milano, domani Londra. Dopodomani Austin, in Texas, dove suonerà al prestigioso SXSW Festival. Qual è il suo posto preferito al mondo?
«Napoli. Il cibo, il mare, le persone, la musicalità: è tutto speciale. Lì vivono i miei amici d’infanzia che non capiscono niente di quello che faccio, del mio mondo. Le mie amiche mi parlano dei figli e dei problemi con la suocera e io sono felice».
Che studentessa è stata?
«Ribelle e secchiona allo stesso tempo. Volevo imparare solo quello che amavo: lettere e filosofia, greco e latino. Il mio mito era Medea, una figura di donna così emancipata da ossessionarmi».
Qual è la sua lingua?
«Il russo lo capisco, ma non lo parlo. Canto in inglese, e a volte traduco i versi dall’italiano così suona tutto più poetico. L’altro giorno ho detto al mio fidanzato “I have a weakness for you”, “ho un debole per te”, e lui si è emozionato. Nessuno glielo aveva mai detto, perché in inglese non esiste».
Come vi siete conosciuti?
«Michael è un produttore e musicista inglese, mi seguiva da tre anni sui social. Prima di incontrarci abbiamo chattato su WhatsApp per un mese fino alle due del mattino. Il primo appuntamento è stato a uno speed dating: avevamo 4 minuti di conversazione a disposizione, ma ci siamo alzati 2 ore e 37 minuti dopo (Mi mostra il polso dove è tatuato un timer che segna 2 h e 37”, ndr). È stato un colpo di fulmine, stiamo insieme da 10 mesi. Ora vive a Los Angeles, mi manca tantissimo».
Ha intenzione di raggiungerlo in America?
«Andrò a trovarlo dopo i live in Texas, non vedo l’ora. Ma non mi trasferirò, ho l’Europa nel cuore. E poi l’amore non può essere semplicemente un bisogno, è molto di più. Vero è che quando ami qualcuno sei disposto a fare qualsiasi cosa, anche mollare tutto e ripartire da zero. Me lo ha insegnato mia madre».
Ci siamo visti a uno speed dating che doveva durare 4 minuti
MA NOI CI SIAMO RIMASTI 2 ORE E MEZZA