Vanity Fair (Italy)

EDITORIALE

- di Simone Marchetti

Marianna non dice mai quanti anni ha. A chi glielo chiede, risponde di essere una mamma «anta». Lavora all’Inps tra Parma e Brescia, ha una figlia piccola, un marito infermiere e sta aspettando un altro bambino. Lo vuole chiamare Samuele. È un venerdì sera di aprile, quando inizia il weekend più brutto della sua vita. Il marito viene ricoverato per Covid e lei si ritrova a casa da sola. Incinta, con una bambina piccola e tanti esami ancora da fare. Da quel momento le fa paura tutto: non vuole più uscire di casa e smette di vedere qualsiasi telegiorna­le. D’ora in poi si guardano solo cartoni animati, dice alla figlia.

Passano le ore, i giorni. Ma quando le fanno il tampone e risulta positiva al virus anche lei, la paura passa. Perché è una donna pratica. Pensa: mia figlia piccola non si ammalerà, lo dicono le statistich­e. Il problema è Samuele: ma non ci fa troppo caso, le basta sentirlo muoversi nella sua pancia.

Quando, la scorsa settimana, entra in sala operatoria per un parto cesareo, è nervosa. Tutti i medici sono bardati. Non li riconosce, sembra un film di fantascien­za. Però sotto i camici e le mascherine sente l’umanità, la luce dei loro occhi, la stretta delle mani dell’ostetrica. Il silenzio dell’intervento è come un suono che pervade tutto e la porta lontano. È un altro suono, invece, a riportarla qui, in sala operatoria: il pianto di Samuele, qualcosa di così bello, di così vivo da farla tornare dentro il suo corpo.

I medici le porgono il figlio, lui piange come un matto. Poi, appena sente la pelle della madre, si zittisce e torna il silenzio. Un nuovo, bellissimo silenzio.

Samuele viene preso, lavato, curato, avvolto. Marianna avverte che lo stanno portando in un’altra stanza. Quando le parliamo al telefono, racconta che in quel momento il suo corpo è rimasto nella sala operatoria, ma il suo cuore, i suoi sogni sono usciti di lì per stare vicino a Samuele.

Abbiamo scritto questo numero di Vanity Fair con il corpo nell’emergenza del virus e della crisi economica, ma con il cuore e i sogni nel domani. L’abbiamo

intitolato «Difendiamo i nostri sogni» e abbiamo chiesto a scrittori come André Aciman e Manuel Vilas e a visionari come Alice Rohrwacher o Claudio Baglioni di mettere sul foglio pensieri e parole. Abbiamo fatto lo stesso con l’artista americano Dane Shue chiedendog­li di rielaborar­e l’immagine del sognatore per eccellenza, John Lennon. Vi chiediamo di seguirci e di fare come Marianna: rimanere col corpo qui ma andare con l’immaginazi­one al domani. Perché, è vero, il domani sarà difficile. Ma senza i sogni sarà impossibil­e.

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