Vanity Fair (Italy)

La lezione del ghetto di Varsavia

- MATTIA FELTRI

Pochi giorni fa (19 aprile) sono stati 77 anni dalla rivolta del ghetto di Varsavia. Gli ebrei cominciaro­no la guerriglia ai nazisti strada per strada. Fu un’insurrezio­ne senza speranza, e per questo di un eroismo struggente, sorretto da coraggio e colpi di genio. La rivolta durò ventisette giorni, poi fu domata. Tredicimil­a ebrei morirono nei o per i combattime­nti, o giustiziat­i, altri seimila furono portati e uccisi a Treblinka, il grosso dei superstiti, 42 mila, distribuit­o in vari lager. Il ghetto fu raso al suolo e sopra fu costruito il campo di concentram­ento di Varsavia. L’unico dei comandanti della rivolta a scamparla fu Marek Edelman, poi protagonis­ta di Solidarnos­ʹcʹ, il sindacato antisoviet­ico di Lech Walesa. Raccontò del ghetto in alcuni libri, e nell’ultimo (C’era l’amore nel ghetto, Sellerio) descrisse un episodio che mi è venuto in mente in questi giorni del virus. La signora Tenenbaum, infermiera, ebbe il numero della vita, cioè il numero da applicare sulla giacca degli ebrei produttivi, da risparmiar­e. Lo ebbe lei ma la figlia diciassett­enne no. Allora lo diede alla figlia, e tentò il suicidio ingerendo varie fiale di un forte ipnotico, il Luminal. I medici discussero fra loro se salvarla oppure no. Ma salvarla significav­a condannare la figlia. Dovevano scegliere, e alla fine decisero di non curare la signora Tenenbaum e di salvare la figlia. Avevo scritto, poco fa, che l’insurrezio­ne era senza speranza. Ma Edelman non sarebbe stato d’accordo. Raccontava della Shoah, e del ghetto, perché «coloro che sono caduti hanno compiuto il loro dovere fino in fondo». È un messaggio di libertà e di speranza sempre attuale, diceva. Potremmo pensarci su, indegnamen­te, anche oggi.

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