Gli scenari del futurologo Matt Ranen
Matt Ranen, futurologo, spiega quattro scenari che si potrebbero presentare dopo la pandemia, tenendo presente la CRISI ECONOMICA che minaccia gli Usa e il mondo
Quelli come me non sono mai stati così popolari», dice al telefono da San Francisco Matt Ranen, per nove anni leader presso Global Business Network, la società che ha lanciato il campo della pianificazione degli scenari in tutto il mondo. Che il coronavirus porterà a un cambiamento della nostra vita è un dato di fatto, ed esistono già diverse previsioni sviluppate sulla base della diffusione del virus, del suo impatto immediato, concentrate principalmente sulla dimensione e sulla velocità dell’epidemia oppure sulle ripercussioni economiche a breve termine. Quello che invece fa Ranen è pensare ai cambiamenti strutturali che si potrebbero vedere nella società, nella politica e nell’economia e che «potrebbero avere un impatto più duraturo sul modo in cui saremo costretti a vivere le nostre vite».
Le domande fondamentali da cui è partito sono due. La prima, riguarda il tipo di società che scaturirà in seguito a un’esperienza così traumatica come la pandemia. «Le persone manterranno ancora fede e partecipazione nei tradizionali contratti sociali con i governi nazionali o cercheranno di stringere nuovi accordi organizzandosi in comunità alternative?», si chiede. La seconda, riguarda il tipo di risposta che sarà data allo tsunami economico: in che misura verranno affrontati obiettivi che vanno oltre la semplice crescita del Pil? Ci saranno misure di felicità diverse e forse persino un ripensamento del modo in cui la misurazione dei sistemi economici viene attuata? Secondo Ranen gli scenari possibili sono quattro: Stato Buono, Fazioni Locali, Dittatura e Città Azienda (vedi schema pagina successiva). «Ogni scenario è sia positivo che negativo», spiega «e molto dipende da dove vivi. Se sei nello scenario delocalizzato e vivi in Louisiana, per esempio, probabilmente sei fregato perché lì non esiste un buon governo locale». Per lo scenario della «Dittatura» cita il libro di Stephen King L’uomo in fuga in cui «una élite di persone gestisce la società. Tutti vivono in baraccopoli tranne questi eletti e le rivolte sono tenute sotto controllo attraverso la tecnologia militare. In una ipotesi del genere se appartieni alla classe operaia o a quella media non te la passi bene». Le recenti immagini delle centinaia di auto in fila per il cibo a San Antonio, in Texas, così come a Minneapolis, in Minnesota, non sono così lontane da scenari apocalittici. Persino la deriva locale, quella che può sembrare la più appetibile, ha un problema: la competizione per le risorse. «Lo abbiamo visto con la questione dei respiratori: senza gestione a livello federale gli Stati si sono messi a lottare tra di loro per averli». La settimana scorsa i governatori di sette Stati della costa orientale – New York, New Jersey, Connecticut, Pennsylvania, Delaware, Rhode Island e Massachusetts – si sono uniti per valutare insieme tempi e modi di una possibile riapertura coordinata dell’economia, indipendentemente dalle indicazioni del governo federale. Lo stesso hanno fatto i governatori di tre Stati della costa occidentale, California, Oregon e Washington. Una mossa che non è piaciuta a Donald Trump, convinto di avere «potere assoluto» come ha dichiarato (e che non ha, secondo il decimo emendamento della Costituzione). Su Twitter, il Presidente ha poi accusato il governatore di New York
Andrew Cuomo di ammutinamento. «Un’ipotesi in cui prevale questo scenario è un’ipotesi in cui gli Usa si frantumano in Stati indipendenti», dice Ranen. Per quanto il suo modello sia centrato sugli Usa, ci sono potenziali equivalenze a livello mondiale, dalla Brexit alla «non-cooperazione europea». Non solo, accenni di ogni scenario si stanno già verificando, li stiamo già vivendo. Prendiamo l’ultimo, quello della «Città Azienda». «Amazon ha già lanciato un progetto pilota per offrire assistenza sanitaria ai suoi dipendenti, con l’idea di allargarsi e lanciare un suo servizio sanitario. Se anche solo il 15% della popolazione decidesse di preferire quello, Medicaid (la forma di sanità pubblica americana per i meno abbienti, ndr) crollerebbe». Ma potrebbe trattarsi anche di una grande associazione benefica come quella di Bill Gates, che tra l’altro «sta già lavorando a sette diversi vaccini». Intanto la recessione è dietro l’angolo: in America 22 milioni di persone hanno perso il lavoro. Il governo ha stanziato tre trilioni di dollari per aiutare i cittadini, alcuni già da questa settimana riceveranno a casa un assegno di milleduecento dollari. «A differenza di quella del 2008, questa recessione è in una specie di coma indotto», dice Gianluca Violante, professore di Economia a Princeton. «È una recessione che danneggia fasce diverse della società in modo ineguale, colpendo in modo aggressivo i settori della ristorazione, dell’intrattenimento, i freelance e altre fasce già deboli, ma essendo, a eccezione di rari Paesi, presente in modo abbastanza simile in tutto il mondo, non solo negli Usa». Una situazione di emergenza che però, così come è nata, potrebbe terminare in tempi brevi, come un interruttore spento che da un giorno all’altro si riaccende. «Noi economisti usiamo l’espressione “tenere la luce accesa”, ovvero è importante che mentre c’è questo stato di coma qualche spiraglio rimanga. Ma perché ciò avvenga molto dipende dalle politiche economiche, dagli aiuti», continua Violante. «In Danimarca e nel Regno Unito, per esempio, lo Stato si fa carico fino all’80% degli stipendi. Negli Usa ci sono delle forme simili, ma è tutto più confuso, sono aiuti a pioggia, mentre dovrebbero essere più mirati: per alcuni quei milleduecento dollari di aiuto saranno pochi, altri neanche li useranno». Il problema dell’Italia è che il trauma pandemia si va a sommare a una situazione già difficile. «Ora non c’è scelta, bisogna fare debito, ma sarebbe bello se l’Europa ci venisse incontro. In fondo abbiamo fatto da apripista, siamo stati sfortunati a essere il primo Paese occidentale colpito e di questo non abbiamo colpa. Se l’Europa non ci aiuta adesso, quando lo farà?».