Il legame con la storia
Da bambina ALICE ROHRWACHER sognava di fare l’archeologa. Scavando nella terra del suo luogo d’origine ha incontrato le tracce che le hanno tramandato una lezione fondamentale: bisogna prendersi cura di ciò che si ama
Avrei fatto l’archeologa, nell’altra vita che sognavo da bambina.
Lo spavento, il mistero che suscitava in me il ritrovamento di frammenti di ceramica nella terra, cosa alquanto comune nell’Etruria dove sono cresciuta, mi sembrava impagabile. Forsennatamente scavavo servendomi di bastoncini e pezzi di lamiera con grami risultati, ma per me stupefacenti. Bastava un pezzo di coccio per trascinarmi all’indietro nello spazio e nel tempo, viaggiatrice involontaria di una macchina fantasmagorica. Quel frammento era parte di qualcosa che un uomo aveva costruito: perché non potevo allora io immaginarlo a partire da quell’indizio?
Ed ecco che l’oggetto appariva nuovamente integro nelle mie mani: prima era una bellissima brocca finemente decorata, ora una scheggia di vetro mi riportava un calice di alabastro. Mi chiedevo: chi l’avrà fatto? Chi l’avrà toccato?
Guardavo meglio e mi sembrava di scorgere le impronte digitali di un altro essere umano. Chissà com’era bello questo vasaio! E chissà questa brocchetta, passando di mano in mano, quante vite avrà accompagnato! E perché è finita proprio qui in mezzo al campo, come sarà successo, è stata persa? È stata una bambina come me che l’ha fatta cadere mentre andava a prendere l’acqua? E perché non l’ha raccolta?
Quel pensiero non mi dava pace: il momento in cui le cose smettevano di essere cose utili e vive, cose integrate in un sistema presente, e rapidamente attraverso l’abbandono venivano dimenticate e perse, venivano perfino sepolte.
Crescendo di qualche anno, alle scuole medie venni a scoprire che c’erano numerosi siti archeologici nella mia zona che potevo visitare. Che privilegio! Per un biglietto da poco prezzo, ci si ritrovava scaraventati attraverso le epoche, tra gli antri freschi delle tombe etrusche e i puzzle di pietra degli antichi selciati. Si potevano vedere fondamenta di templi antichi dove donne e uomini con la testa appoggiata sul pavimento avevano pregato fiduciosi nella grazia di un dio. E quell’angolo di pietra, era forse l’angolo di una camera da letto? Lì erano state cantate delle ninne nanne in lingue perdute, e lì c’era stata una finestra che aveva incorniciato lo stesso paesaggio che io ora vedevo.
C’erano però delle stranezze: la strada di Vulci, per esempio, per scavarla diceva la nostra guida che avevano dovuto togliere quattro metri di terra. Quattro metri! E non potevo non chiedermi: mentre la strada si copriva, che facevano le persone? Perché non pulivano la strada? Possibile che non si siano accorti che il loro decumano veniva sepolto da tutta questa terra e non abbiano fatto nulla per impedirlo? Sentivo che c’era un buco nero da qualche parte in cui le civiltà diventavano come straniere a sé stesse, e si lasciavano seppellire.
In genere i visitatori dei siti archeologici e dei musei amano le cose sorprendenti e rare, gli ingegni dei tempi che furono. Tuttavia la cosa che più mi attraeva non era l’insolito, bensì la quotidianità degli antichi. C’era un’aria di incredulità proprio davanti alle cose più piccole e banali, quotidiane: il pennellino per il trucco ancora imbevuto di tinta nera, le lenzuola ormai fossili e ripiegate con cura e con una forma che tanto somigliava a quelle del nostro armadio, il vasetto ancora pieno di semi di dragoncello rubati all’ultima stagione… Queste cose mi ipnotizzavano. Cosa c’è di raro nella vita di tutti i giorni? Perché mi stupiva e spaventava così tanto? Era forse il mistero che sento ancora oggi nascosto nel quotidiano, nella luce che si posa sulle cose al mattino, il pensiero di assistere al miracolo comune della vita. Comune perché di tutti.
Camminando per i siti archeologici, sentivo di amare quello spazio vuoto non in sé, ma perché memoria di una vita che seppur lontana riconoscevo. E nella bellezza di alcuni gesti che anche io ragazza imparavo a fare, nell’affettare il pane o nel versare dell’acqua, io ripetevo un gesto che non mi apparteneva, ma che prendevo in prestito da una storia più grande.
Sono passati tanti anni, ho fatto altre scelte e non sono diventata un’archeologa.
Ma in questi giorni, vedendo le immagini dei droni che passano sulle città deserte, mi sono ricordata dei miei viaggi archeologici e ho letto quegli spazi come una sorta di archeologia del presente. Vedere questi spazi contemporanei vuoti mi ha fatto pensare che per quanto ne dicano, non sono belli in sé, ma sono belli per la memoria che ci riportano della vita della gente. È come vedere lo scheletro di una persona amata in una radiografia, e poi ritrovarla florida e allegra nella stanza accanto. È proprio l’averli svuotati che li ha resi desiderosi del pieno. Da troppo tempo erano asfissiati dal nostro viavai quotidiano, che ne aveva cancellato il senso e lo spazio, li aveva drogati in un andirivieni ormai cieco ed estraneo. Ma ora, per la prima volta dopo tanto tempo liberi, li abbiamo visti come risvegliandoci da un torpore, e abbiamo desiderato ritrovarli gremiti e abitati, invasi da manifestazioni e cortei umani. Le piazze, i viali, gli alberi, sono belli perché ci mancano.
Prendere questa distanza dalla nostra epoca sarà spero un passaggio prezioso per tornare, archeologi del presente, a vedere il valore di gesti che prima si davano per scontati, e non lasciarci seppellire inavvertitamente da noi stessi.
E quindi il cinema.
Tante volte mi sono trovata a dover difendere il cinema come luogo vivo, e non solo come contenitore di film. Quello che amo in questo spazio è la sua dimensione pubblica e collettiva, la grande possibilità che ci è data di entrare in una stanza piena di sconosciuti e con loro instaurare un segreto legame – ridere insieme, annoiarci insieme, avere paura insieme, innamorarci insieme. Fino a poche settimane fa i contenuti di questi luoghi, i film, avevano preso il sopravvento e sembrava l’unica cosa necessaria da consumare, ed era molto più comodo scaricarli, comprarli, vederseli a casa piuttosto che affrontare l’aperto e andare al cinema. Il cinema era diventato un anonimo contenitore da sfidare con ogni tecnologia. Chi difendeva la sala ancora come rito collettivo veniva tacciato come anacronistico. Eppure proprio adesso che i cinema sono deserti, che siamo storditi dalla quantità di film che possiamo consumare chiusi nelle nostre case, ne riscopriamo la mancanza. Non era solo uno stendardo per i nostalgici, abbiamo bisogno di luoghi collettivi e dobbiamo, vogliamo riprenderceli appena potremo. E forse ora li sapremo accudire meglio, e sarà come piantare quei semi fossili e vedere se hanno conservato il loro potere germinativo.