Vanity Fair (Italy)

DEVI MORIRE, VECCHIO

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er anni ci hanno martellato i coglioni che «vecchio è bello», che il ciuffo argentato era un simbolo di attizzante sensualità, che i confini tra giovinezza, maturità e vecchiaia erano diventati mobili. Anzi, non esistevano più se il tuo «stile di vita» era «appropriat­o», abolendo i piaceri della vita – fumo, droghe e millefogli­e – sostituiti da un orrendo atto contro natura: la ginnastica. Ecco facce smaltate come una vasca da bagno, con abitini da fighetti informati, atteggiame­nti da gagà capriccios­i, che escono da un letto ed entrano in un altro. E grazie a un’overdose di Viagra, Saul Bellow, Nobel per la letteratur­a, diventò papà a 84 anni battendo il record di Anthony Quinn, al quale nel ’96, all’età di 81 anni, nacque un maschio. L’altra settimana il 70enne Richard Gere ha attaccato un fiocco azzurro davanti alla porta. Una volta giravano battutacce: «Vecchio io? Se posso ancora fare l’amore due volte di seguito. Una volta d’inverno, una volta d’estate». Oppure quest’altra: «Per un 70enne è facile amare il prossimo. Meno facile amare la prossima». Uscire con un ammuffito e finire sotto le lenzuola con una mummia non era più una cosa turpe. Da Villa Arzilla si era passati alla «sindrome di Cher» (da qui all’Eternit), una 70enne in grado di trasformar­e una fascia Gibaud in un tanga. Questa alterazion­e d’età era ormai una linea di vita vissuta e gassata come una gazzosa. Nonnetta ritmo!, come sghignazza­va Alberto Sordi. E le Pantere Grigie e le Carampane rosse ci hanno subito creduto. Fino a ieri, il più grave problema

Pdella vecchiaia era il timore che non durasse troppo a lungo. Del resto, già lo diceva Ivan Turgenev: «Sapete qual è il più grande di tutti i vizi? Avere 60 anni». Avevamo l’immunità anagrafica, olè!

Adesso, fermi lì. Perché, causa ’sto coronaviru­s, dopo la Strage degli Innocenti, sta per partire la Strage degli Anziani. Da 60 in su sono da rinchiuder­e perché contagiano pure le zanzare. I virologi hanno deciso così. Avanti l’infame «immunità di gregge» di Boris Johnson («Only the strong survive»), per finire con le agghiaccia­nti cronache sulla strage degli anziani nelle Rsa. Per qualche ragione legata ai miei 72 anni, non credo nei giovani e non credo nei vecchi, banali categorie da marketing. Fateci caso, alla fine contano solo censo e peso sociali: i poveri sono «vecchi», i ricchi «anziani». In preda a qualche buon Negroni, tenevo a memoria il famoso paradigma di Alberto Arbasino: «In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro».

A ciascuno il suo, questa è la giustizia, anche nei sentimenti e nei giudizi morali. Ai vecchi tocca il privilegio di aver vissuto, il cinismo dell’esperienza, il rispetto della tradizione, una visione delle cose robusta, meno facile di quella dei giovani concorrent­i, quel tanto di ironia che fa a pugni spesso con il fanatismo d’impulso legato alla continua scoperta del mondo. Insomma, che volete? Avete già quello cui i vostri figli e nipoti aspirano.

E non uso l’argomento più stupido, che ci si sente giovani o vecchi dentro, l’età anagrafica non conta, sì, ma solo per gli imbecilli. E nemmeno quello forse ancora più stupido, per cui ci sono tanti vecchi belli e interessan­ti e tanti giovanotti dallo sguardo bieco e dalla pelle orrendamen­te butterata di foruncoli. Così, inalberand­o l’ultimo tatuaggio, preferisco mettere sotto lo sguardo dei nostri esperti e virologi quel grandioso motto africano che detta: «È vero: i giovani corrono più veloci, ma gli anziani conoscono la via».

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