IL SILENZIO TRA I BANCHI
All’improvviso, dopo un fine settimana di febbraio, le aule sono rimaste vuote. Nel suo libro un PROFESSORE immagina il dopo coronavirus, quando sarà necessario non solo ripartire ma rifondare la scuola, iniziando dall’insostituibile relazione di contatto
vuota, abbandonata dopo un fine settimana di febbraio, e che, come la scuola del fumetto Peanuts sente la mancanza dei ragazzi, anche di Sally Brown che la prendeva a calci. Ma sappiamo anche che questa non sarà l’immagine definitiva. Ricominceremo, sconfiggeremo il virus, le scuole riapriranno, forse a settembre. Ma cosa ce ne faremo di tutta questa malinconia quando tutto questo sarà finito? Che suono avrà la campanella il primo giorno di scuola del dopovirus? Come siederanno nei banchi i nostri ragazzi? Torneranno a mettersi in bocca la penna del compagno, a rubargli i calzini negli spogliatoi, a sputare i pezzettini di carta usando la Bic senza refil come cerbottana? (...)
«Preparatevi, ragazzi, al rientro verifiche e interrogazioni a gogo!». È il post di un insegnante delle scuole medie, immediatamente successivo a quello nel quale, nella prima settimana di quarantena, aveva scritto: «E sia chiaro che io la verifica di martedì non la sposto!». Chissà se avrà poi scritto una nota sul registro elettronico: «Il coronavirus sabota le attività didattiche impedendo la realizzazione della verifica. Si chiedono provvedimenti». C’è stato un momento nel quale sembrava che la colpa fosse dei ragazzi (e del resto, quando mai non è colpa dei ragazzi?). Il meno che si diceva loro era «Che pacchia, eh!». Li si guardava di traverso perché si alzavano alle otto e mezza anziché alle sei e mezza (senza pensare che è insano che un tredicenne si alzi prima del sole per andare a scuola). Li si ricattava: «Vedrai quando riapriranno le scuole!». Erano stati loro, non c’era dubbio. Come quei compagni che hanno allagato la scuola per evitare la verifica, vuoi che qualche liceale in debito in latino non abbia sintetizzato un virus? Come in un racconto di Ballard o di Bradbury un virus che risparmia i ragazzi e permette loro di non andare a scuola suscita una tremenda invidia inconscia in alcuni adulti. Che razza di idea della scuola e degli alunni hanno le persone che parlano così. E chissà che scuola faranno ripartire.
Riprendere la scuola a suon di verifiche e di prove a crocette, aumentare ulteriormente l’ansia dei ragazzi rispetto all’essere «rimasti indietro con i programmi» sarebbe la sconfitta della scuola. E, per parlar chiaro, sarebbe la sconfitta definitiva. Dopo il Covid la scuola si gioca tutto: è il momento di pensare davvero in modo radicale a cosa significa verificare gli apprendimenti e valutare; perché se i ragazzi in questi mesi hanno appreso tutto quello che avrebbero imparato a scuola, allora tanto vale chiuderle per sempre, le scuole. Molti di noi sanno che non è così, sentono oscuramente che quello che stiamo perdendo ad aule chiuse è l’essenziale della scuola, e ha a che fare con la relazione educativa ma anche con i contenuti, che in queste settimane davanti allo schermo i ragazzi stanno lavorando, stanno assumendo informazioni ma non stanno imparando. È allora il caso di rendere meno oscura questa sensazione. Quando dicevamo che la scuola è l’ambito della socializzazione del sapere, venivamo guardati con benevola tolleranza dai campioni dei contenuti (o delle competenze, come è di moda dire oggi): sì, certo, facciamoli socializzare, facciamoli stare insieme nelle ore di mensa o negli intervalli; poi però, poche storie, sotto con i contenuti, e chi non impara peggio per lui. Purtroppo tutto questo era rafforzato anche dall’ingenua generosità di chi diceva: «A me interessa prima la socializzazione e poi la didattica»; il problema è che da nessuna delle due parti (gli istruzionalisti scatenati e i timidi socializzatori) si mettevano semplicemente insieme le due cose. La scuola non è un posto dove si socializza né un posto dove si impara ma l’unico posto nel quale si socializza l’apprendimento. Questo sta mancando a tutti coloro che vivono la scuola nella sua essenza: non il fatto che l’insegnante comunichi un contenuto a Paolo (il che tra l’altro accade anche a distanza. E non è un caso che gli insegnanti che sanno intrattenere relazioni significative con i propri ragazzi siano anche quelli che stanno utilizzando con più efficacia la didattica a distanza) ma che Paolo, Aisha e Babacar condividano i contenuti e ne facciano dei pre-testi per stare insieme. Quello che accade è che la III D impari, insieme, fianco a fianco; e che il mio compagno è contemporaneamente un aiuto per l’apprendimento e il fine del medesimo: non imparo per l’insegnante ma per i miei compagni di classe. Se poi questo significa passare il pomeriggio insieme a sorridere perché Dante ha scritto «Ed elli avea del cul fatto trombetta», va benissimo così, perché Dante ha scritto quel verso sapendo perfettamente che si riferiva a un tabù, a qualcosa di sconcio che ha avuto il coraggio di immettere in un poema cristiano.
La classe è un gruppo di lavoro, di un lavoro faticoso e gioioso, anzi gioioso perché faticoso. A scuola si impara solo per e con gli altri, e il gruppo o il sottogruppo è un luogo nel quale non ritrovo (almeno non necessariamente) i miei amici ma i miei compagni di apprendimento. Una scuola che ha tollerato per anni frasi quali «il figlio di mia cognata ha la stessa età di mia figlia ed è già a Napoleone mentre noi siamo ancora a Robespierre» oppure «se inserite il ragazzino cinese in classe poi mio figlio resta indietro», una scuola che ha troppo spesso usato le valutazioni come classifiche e la corsa al profitto come competizione tra i ragazzi è una scuola che il coronavirus avrà sconfitto per sempre. Ma se la scuola in questi giorni ci manca, allora significa che essa è ancora un oggetto del desiderio; e in questo mondo desiderato e desiderabile, che dovrebbe essere uno dei posti migliori per un ragazzo nel quale passare le proprie mattine, la verifica dell’apprendimento dovrebbe emozionare come la scalata alla vetta, l’interrogazione come la parte da recitare davanti a un pubblico in silenziosa attesa. E questo non «nonostante» i contenuti ma proprio a partire dalla loro affettivizzazione.
NUOVE RELAZIONI E VALUTAZIONI
Raffaele Mantegazza insegna Scienze pedagogiche nel dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Milano-Bicocca e organizza corsi di formazione per insegnanti, studenti, genitori, personale sanitario, educatori. Tra i suoi ultimi libri pubblicati con Castelvecchi ricordiamo Narrare l’inizio. Gravidanza, parto, nascita tra natura e culture (2017), Narrare la fine (2018),
Lettera a un neonazista (2019). Quest’ultimo, La scuola dopo il coronavirus, è un e-book della nuova collana ESC di Castelvecchi, disponibile su tutte le piattaforme di e-commerce, nata per raccontare come vivremo dopo l’emergenza Covid-19.
Ai vernissage indossa la giacchetta taglia 130-140 cm, si muove sicuro tra i visitatori, rilassato come nel cortile della scuola durante la ricreazione. Quando si scatenano i fotografi, lui non sbatte gli occhi e sorride, ha imparato che bisogna avere pazienza. La nuova (mini) star che ha sorpreso il mondo dell’arte tedesco si chiama Mikail Akar, viene da Colonia, ha sette anni ed è sotto i riflettori da quando ne aveva quattro. Mikail ha fatto diverse mostre personali in Europa e i suoi ultimi quadri sono stati venduti a partire da 10 mila euro. Si è trovato in prima elementare già connesso a vari artisti affermati di diverse età, che hanno condiviso con lui i trucchi del mestiere. Una posizione privilegiata per un bambino, che oggi conta migliaia di follower su Instagram. Come ogni artista che si rispetti, anche i suoi inizi sono avvolti nella leggenda. Si narra che i genitori gli abbiano regalato delle tele per uscire dal classico circolo vizioso di regali per bambini puzzle-macchinette-supereroi. Il padre tornò dal lavoro la sera, vide la prima tela dipinta e fece i complimenti alla moglie. «Non mi avevi detto che disegnavi così bene!». Quando scoprì che invece era stato «il piccolo» non ci poteva credere. Condivise le tele successive su Facebook suscitando un entusiasmo che non lasciava dubbi: quei disegni erano qualcosa di eccezionale.
Ti diverti quando dipingi, Mikail?
Sorrido e avvicino il viso al telefono. Sono le 7 di sera, e come per molti bambini a casa è ora di cartoni animati. Il padre spegne la tv e Mikail mi guarda tra il rassegnato e l’annoiato, ma consapevole di come ci si comporta in un’intervista.
«È ok, normale, insomma».
Che cosa pensano i tuoi compagni dei tuoi disegni?
«Che è cool».
Cosa ti piace guardare alla tv?
«Pokémon, ma mi piace molto anche Alvin Superstar».
Quali sono i tuoi colori preferiti quando disegni?
«Tutti, tranne il rosa e il viola»: chiaro, sono da femmine.
Quali parole collegheresti al dipingere?
«Io credo che la pace sia la cosa che ci assomiglia di più».
Quali sono i tuoi libri preferiti?
«Uno di Jean-Michel Basquiat e uno di Michael Jackson». Mikail ha un grosso seguito su Facebook, Instagram e su
A PENNELLO
Mikail Akar, 7 anni. Il giovanissimo artista di Colonia ha iniziato a dipingere quando aveva 4 anni e ora le sue opere valgono migliaia di euro.